ASSICURAZIONE DANNI

Autore: Marco Rossetti
ASSINEWS 376 – Luglio – Agosto 2025

Focus sui pericoli occulti insiti in clausolari “d’importazione” poco meditati

1. Premessa: i difetti d’un prodotto d’importazione

Sarà capitato a tutti di acquistare sul web un qualsiasi apparecchio elettrico dotato d’una spina non adatta alle prese di corrente in uso in Italia. In questi casi bisogna ricorrere ad un adattatore.
Lo stesso accade a non pochi “prodotti” (rectius, “contratti”) assicurativi concepiti in altri Paesi, e recepiti dagli assicuratori nostrani perinde ac cadaver, incuranti di chiedersi se la descrizione del rischio contenuta in quelle polizze sia coerente col diritto civile italiano.
Un esempio perfetto di questo fenomeno sono le polizze c.d. Director’s and Officers’ (D&O).
Questi contratti sono (riduttivamente) definiti come contratti di assicurazione della responsabilità civile di amministratori, direttori generali, sindaci, figure apicali di una società commerciale, stipulati dalla società stessa.

In realtà nella prassi commerciale i contratti D&O possono coprire rischi tra loro molto diversi (v. il § seguente). Alcuni di tali rischi, tuttavia, per come sono descritti nelle polizze più diffuse, pongono seri problemi all’interprete e sollevano seri dubbi quanto alla loro validità. E quando una polizza presenta dubbi di validità per come è congegnata, essa mette in pericolo l’intermediario. Si può infatti esser certi che l’assicurato, quando si sentirà dire dal giudice che quel contratto era nullo, contesterà all’intermediario di avergli propinato una polizza non coerente col suo profilo di rischio e con le sue esigenze di copertura, in violazione della c.d. suitability rule imposta dall’art. 119-bis cod. ass..
Vediamo dunque quali sono le insidie delle polizze D&O.

2. Polizze D&O: non solo responsabilità civile

Le polizze D&O più diffuse nel nostro Paese normalmente prevedono o possono prevedere la copertura dei seguenti rischi:

a) la responsabilità dei dirigenti verso i terzi; in questo caso, se come è d’uso la polizza è stipulata dalla società, ci troveremmo dinanzi ad una assicurazione di responsabilità civile per conto altrui ex art. 1891 c.c., in cui contraente è la società e beneficiario è il dirigente;

b) la responsabilità dei dirigenti verso la società; anche in questo caso se la polizza è stipulata dalla società ci troveremmo dinanzi ad una assicurazione di responsabilità civile per conto altrui ex art. 1891 c.c.; con la particolarità tuttavia che lo scopo indiretto di questo contratto è la tutela del patrimonio della società, più che del dirigente;

c) la copertura della responsabilità civile (non del dirigente, ma) della società verso i terzi per il fatto del dirigente, ex artt. 1228 o 2049 c.c.: in questo caso non ci troveremmo dinanzi ad una assicurazione per conto altrui a beneficio del dirigente, ma ad una ordinaria assicurazione della responsabilità civile della società;

d) la copertura della responsabilità civile (non del dirigente, ma) della società verso i terzi per il fatto proprio: anche in questo caso ci troveremmo dinanzi ad una ordinaria assicurazione della responsabilità civile della società;

e) la copertura della responsabilità civile della società verso il dirigente (ad es., a copertura del rischio che la società sia costretta a rimborsare all’amministratore le somme da questi spese per risarcire il danno causato al terzo, come nelle ipotesi di responsabilità solidale del dirigente e della società, quando il primo abbia risarcito il terzo ed agito in regresso verso la società, ex art. 1299 c.c.); in questo caso non ci troveremmo dinanzi ad una assicurazione della responsabilità del manager, ma ad una assicurazione contro i danni (per l’esattezza, contro le perdite pecuniarie) a favore della società;

f) la tutela legale del dirigente: in questa ipotesi ci troviamo dinanzi non ad una assicurazione di responsabilità civile, ma ad un’assicurazione contro i danni (per l’esattezza, contro il rischio di perdite pecuniarie) per conto del dirigente ex art. 1891 c.c.. Dunque la polizza D&O è un contratto commercialmente tipico, ma giuridicamente atipico, il quale di norma ha ad oggetto la copertura di rischi diversi (responsabilità per fatto proprio; responsabilità per fatto altrui), a favore di persone diverse (la società, l’amministratore) e per danni diversi (la responsabilità civile, le perdite pecuniarie, la tutela legale).

3. Compatibilità con l’ordinamento nazionale

Come accennato, non poche delle polizze D&O in circolazione non sono che la traduzione pedissequa di formulari provenienti d’Oltremanica o d’Oltreoceano. Questo recepimento tuttavia è avvenuto talora senza tener conto delle differenze esistenti tra gli ordinamenti anglosassoni ed il nostro, in tema di responsabilità della società per il fatto del dirigente, e del mandante per il fatto del mandatario. Nel nostro ordinamento, come noto, il mandante risponde del fatto del mandatario, e più in generale il «padrone e committente» risponde del fatto del «commesso o del servitore» (art. 2049 c.c.), così come chiunque si avvalga di un terzo per l’adempimento d’una propria obbligazione risponde del fatto del terzo (art. 1228 c.c.). Tuttavia, una volta che il mandante abbia risarcito la vittima del danno causato dal mandatario, il mandante avrà facoltà di regresso nei confronti di quest’ultimo, ai sensi dell’art. 1299 c.c.: per l’intero, se il danno è ascrivibile a colpa esclusiva del mandatario, o pro quota, se ad esso abbia contribuito anche la condotta del mandante1.

Nel diritto nordamericano le cose vanno diversamente. Lì costituisce principio pacifico (c.d. “recognized principle”) che in tema di mandato il mandante deve tenere indenne il mandatario delle spese che questi dovesse affrontare per risarcire un terzo, danneggiato da un atto compiuto dal mandatario nello svolgimento delle incombenze affidategli2. Il problema è che per lunghi anni negli U.S.A. si dubitò se tale regola, valida per il rapporto di mandato, potesse applicarsi ai rapporti tra una società commerciale ed i suoi amministratori. La Corte Suprema degli U.S.A. lo ammise solo in parte (per le spese sostenute dall’amministratore per resistere alla domanda del terzo), e solo se, e nei limiti  in cui, la resistenza in giudizio dell’amministratore avesse apportato un beneficio alla società3.

In quell’ordinamento giuridico, pertanto, alle società commerciali era vietato, oltre i limiti appena indicati, rimborsare ai propri amministratori le somme spese per risarcire i danni causati a terzi. Dopo la sentenza della Corte Suprema appena ricordata, molti Stati degli U.S.A. adottarono statuti che consentivano (ma non imponevano) alle società di tenere indenni gli amministratori dai costi sostenuti per resistere alle azioni di terzo, o di rimborsarli per esse. Queste normative prevedevano comunque, nel loro testo originario, varie limitazioni (distinguendo tra “mandatory” e “permissive indemnification” dell’amministratore da parte della società, a seconda che la domanda contro di lui proposta fosse stata accolta, rigettata nel merito o dichiarata inammissibile4.

Solo a partire dagli anni Sessanta del XX secolo la protezione accordata agli amministratori di società commerciali venne vieppiù rafforzata, e si previde l’obbligo delle società di tenere indenni gli amministratori dei danni causati a terzi: ciò sul presupposto che «la buona fede dell’amministratore deve presumersi, quando nell’esecuzione dei suoi compiti arrechi un danno a terzi»5.

Questo assetto normativo ha conformato sin dall’inizio i contenuti delle polizze D&O, concepite ovviamente in coerenza con quel sistema, in cui la società è esposta tanto al rischio di dovere risarcire i terzi danneggiati dalla condotta degli amministratori, quanto al rischio di dovere rifondere ai propri amministratori le somme da questi ultimi pagate a terzi a titolo di risarcimento. Ben diverso, invece, è il nostro sistema giuridico, nel quale la buona fede dell’amministratore che abbia causato danni a terzi nell’esercizio delle sue incombenze non si presume affatto, né la società ha l’obbligo di tenerlo indenne dalle pretese dei terzi. Il misconoscimento di questa fondamentale differenza tra l’ordinamento statunitense e quello nostrano ha fatto sì che la trasposizione pura e semplice nel nostro ordinamento dei clausolari D&O “a stelle e strisce” abbia dato vita a clausole talora assurde, altre volte inapplicabili, altre volte ancora drasticamente nulle. Vediamone ora alcune.

4. Patti e clausole sotto “sorveglianza speciale”

Molti sono i dubbi sollevati dalle polizze D&O circa la validità o liceità di alcuni patti in esse contenuti. Alcuni di questi, sollevati dalla dottrina, sono manifestamente oziosi. Altri, misconosciuti dalla dottrina, sono invece seri e problematici. Proverò a riassumere telegraficamente gli uni e gli altri.

4.1. La polizza D&O è stipulata dalla società a beneficio degli amministratori e con premio a proprio carico. Questo contratto è coerente con l’art. 1322 c.c., nella parte in cui può avere per effetto di “deresponsabilizzare” gli amministratori? È un quesito risibile. Se quel dubbio fosse fondato, si perverrebbe al paradosso di ritenere illecito qualsiasi contratto di assicurazione della responsabilità civile. Ma questo tema è stato risolto dalla dottrina giuridica ormai da due secoli, allorché per effetto della Rivoluzione Industriale “il bisogno (economico) di riparare diventa più pressante del bisogno (morale) di rimproverare” (sono parole di La Torre, L’assicurazione nella storia delle idee, Roma, 1995, 192).

4.2. L’assicurazione D&O, quando sia stipulata dalla società, equivale ad una clausola di esonero degli amministratori dalla loro responsabilità, oppure ad una rinuncia preventiva della società all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, di cui all’art. 2393 c.c.. Di conseguenza la polizza resta soggetta ai limiti entro cui la legge consente quell’esonero (art. 1229 c.c.) e quella rinuncia (art. 2393, sesto comma, c.c.). Anche questo dubbio è manifestamente infondato. La stipula di un’assicurazione D&O non equivale affatto ad una clausola statutaria di esonero degli amministratori e dei sindaci dalle rispettive responsabilità.

Non ne ha i presupposti, la natura e gli effetti. La stipula di una polizza D&O non impoverisce il patrimonio sociale, ma anzi ne corrobora le garanzie, nell’ipotesi di insolvenza dell’amministratore; non impedisce l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità; non offre all’amministratore che fosse convenuto in giudizio dalla società alcuna eccezione aggiuntiva, rispetto a quelle di cui disporrebbe se la polizza non fosse stata stipulata. Tanto meno la stipula d’una polizza in esame può dirsi equivalente ad una rinuncia, da parte della società, all’azione di responsabilità. Una simile tesi avrebbe addirittura effetti paradossali: se, infatti, per effetto della stipula la società non potesse agire nei confronti dell’amministratore incapace, il contratto dovrebbe addirittura dirsi nullo per mancanza del rischio (ex art. 1885 c.c.), perché il rischio che l’amministratore assicurato sia costretto a pagare un risarcimento alla società non potrebbe nemmeno sorgere.

4.3. Più serie sono le criticità derivanti dal modo in cui è descritto nei formulari D&O il rischio assicurato e, di conseguenza, il soggetto titolare dell’interesse ex art. 1904 c.c.. Normalmente le suddette polizze D&O definiscono «l’Assicurato» come “qualsiasi amministratore, sindaco o dirigente della società, passato, presente o futuro”, o formule similari. Trattasi, a mio avviso, d’una formula ambigua. Infatti, gli “amministratori passati” e gli “amministratori futuri” sono, sintatticamente, anche coloro che hanno ricoperto la carica prima della stipula della polizza, o che la ricopriranno dopo la cessazione dell’efficacia di essa. Vero è che il contratto in genere contiene una ben precisa delimitazione temporale del rischio, ma è altresì vero che la clausola sopra trascritta sarebbe nominalmente in contrasto con la delimitazione temporale del rischio, e se ne potrebbe perciò invocare la prevalenza su quest’ultima, in virtù del principio dell’interpretatio contra proferentem, di cui all’art. 1370 c.c..

4.4. Tra i soggetti beneficiari della polizza, talune polizze includono “il coniuge legittimo dell’assicurato”. Il rischio coperto è quello che il terzo, danneggiato dalla condotta illecita dell’amministratore o del sindaco, aggredisca in executivis beni compresi nella comunione legale, o comunque in comproprietà “sia dell’assicurato sia del coniuge legittimo, o dai beni trasferiti dall’assicurato al coniuge legittimo”. La garanzia è subordinata alla condizione che la richiesta di risarcimento:

a) derivi esclusivamente dallo stato di coniuge legittimo dell’assicurato
b) sarebbe coperta dalla polizza se fosse avanzata nei confronti del manager
c) minacci di soddisfarsi su beni acquisiti in regime di comunione legale dei beni, o su beni in comproprietà sia dell’assicurato sia del coniuge legittimo, o su beni trasferiti dal manager responsabile del danno al coniuge legittimo.

Simili previsioni danno molto filo da torcere all’interprete. In primo luogo, infatti, il nostro diritto di famiglia non prevede la figura del “coniuge legittimo”. O si è coniugi, o non lo si è: non è concepibile la figura del “coniuge illegittimo”. A meno di non voler interpretare la strana formula sopra trascritta come sinonimo di “coniuge”, in contrapposizione a quella di “convivente di fatto”. Ma anche in quest’ultimo caso il patto contrattuale di cui si discorre sarebbe problematico: infatti i conviventi di fatto che avessero sottoscritto un contratto di convivenza con previsione della comunione legale sono, dal punto di vista patrimoniale, equiparati alle persone unite in matrimonio (art. 1, cinquantatreesimo comma, lettera c), l. n. 76/2016), ed una clausola contrattuale che li discriminasse sarebbe di dubbia validità, sotto il profilo di conformità all’ordine pubblico (art. 1418 c.c.).

In secondo luogo, la clausola sopra riassunta appare di non agevole interpretazione anche nella parte in cui prevede che il diritto all’indennizzo dovuto al coniuge dell’amministratore sia subordinato alla circostanza che la richiesta di risarcimento rivolta contro il coniuge del manager “derivi esclusivamente dal suo stato di coniuge legittimo dell’Assicurato”. La responsabilità civile è personale, salvi i casi espressamente previsti dalla legge (art. 28 Cost.; artt. 2048 e 2049 c.c.). Tra questi casi non rientra certamente la figura del coniuge: moglie o marito non possono mai essere chiamati a rispondere l’uno dei danni causati a terzi dall’altra o viceversa.

Dunque non esiste alcun caso in cui il terzo danneggiato da persona coniugata possa pretendere il risarcimento del danno dal coniuge dell’offensore, soltanto per tale sua qualità. Pertanto la clausola, là dove limita la copertura alle richieste di risarcimento presente al coniuge dell’assicurato “esclusivamente in tale sua qualità”, è nulla per inesistenza del rischio ex art. 1895 c.c..

4.5. Molte polizze D&O prevedono che “l’assicuratore terrà indenne la società quando abbia già rimborsato l’amministratore delle somme da questi dovute ad un terzo”. Questa clausola a mio sommesso avviso è parzialmente nulla per inesistenza del rischio. Delle due, infatti, l’una: o la società ha l’obbligo di rivalere l’amministratore dei danni che questi abbia causato a terzi ed abbia dovuto risarcire; oppure no. Nel primo caso il patto sopra trascritto costituisce una ordinaria amministrazione contro le perdite pecuniarie (se l’obbligo della società deriva dalla legge o dallo statuto, preesistente alla polizza); oppure una ordinaria assicurazione della r.c., se l’obbligo della società discende da un fatto illecito (ad es., concorso nel danno causato dall’amministratore al terzo, con conseguente domanda di regresso ex art. 1299 c.c. dell’amministratore che abbia risarcito per intero il danneggiato). Nel secondo caso, invece, se la società, pur non essendovi obbligata, decide di rimborsare all’amministratore quanto da questi pagato ad un terzo danneggiato dall’amministratore stesso, siamo al di fuori dello schema causale dell’assicurazione.

Il rischio nell’assicurazione contro i danni deve consistere in un evento fortuito, futuro, incerto, non prevedibile e non voluto. La suddetta clausola, invece, fa dipendere l’obbligo indennitario dell’assicuratore non da un evento futuro incerto e non voluto, ma da una scelta soggettiva, non obbligata e voluta dell’assicurato (la società). Ma se la società non ha un obbligo giuridico di rimborsare l’amministratore che si sia reso responsabile d’un danno a terzi, il pagamento da essa compiuto costituisce un atto libero e volontario, e come tale non qualificabile come “atto futuro, incerto e non voluto”. Si tratterebbe, insomma, d’un rischio assimilabile ad una condizione si voluero, come tale radicalmente nulla.

5. Chi può stipular e il contratto D&O?

La stipula della polizza D&O – si sostiene da taluni – è un beneficio per l’amministratore. Di conseguenza essa costituisce una forma di remunerazione indiretta, e la decisione di sottoscriverla spetterebbe all’assemblea, non al consiglio di amministrazione. Dunque la polizza stipulata dall’organo esecutivo della società sarebbe inefficace. Ecco un altro serio problema, anch’esso assai delicato per l’intermediario, il quale deve sapere se chi si fa innanzi a lui a sottoscrivere la polizza abbia i poteri per farlo. A tale problema alcuni interpreti hanno dato soluzione nel senso che il premio pagato dalla società per stipulare una polizza D&O per conto altrui non costituirebbe una retribuzione indiretta, ma un atto di gestione ordinaria della società.

Di conseguenza:

  • nella società per azioni, la scelta di stipularla (o non stipularla) rientrerebbe nelle competenze degli amministratori, ai sensi dell’art. 2380-bis c.c.;
  • nella società a responsabilità limitata, la scelta di stipularla spetterebbe all’organo amministrativo, ex art. 2475 c.c.

Un secondo orientamento ritiene invece che la stipula di una polizza D&O, da parte della società a beneficio dei manager costituisce un beneficio per questi ultimi, e di conseguenza il premio a tal fine pagato dalla società costituisce una forma di remunerazione. La conclusione è che la decisione di stipulare questo tipo di polizza: i) nella società per azioni deve essere adottata dall’assemblea, ex art. 2364, primo comma, n. 3, c.c.; ii) nella società a responsabilità limitata deve essere adottata dai soci, riuniti (art. 2479-bis c.c.) o meno (art. 2479 c.c.) in assemblea.

Personalmente riterrei preferibile il secondo orientamento: infatti l’amministratore, per effetto del pagamento del premio versato dalla società, acquista il credito scaturente dal contratto di assicurazione, e chi acquista un credito acquista per ciò solo un vantaggio. Se la società non avesse stipulato la polizza, l’amministratore, per garantirsi il medesimo vantaggio patrimoniale, avrebbe dovuto sostenere di tasca propria il relativo onere. Appare, pertanto, davvero arduo concludere che il premio pagato dalla società non costituisca una remunerazione indiretta per l’amministratore.

Un cenno finale merita la Risoluzione del 9 settembre 2003 n. 178/E dell’Agenzia delle Entrate, spesso citata come un Mantra, per giungere alla conclusione che la stipula d’una polizza D&O è un atto gestorio, e sfugge alla competenza attribuita all’assemblea dall’art. 2364, primo comma, n. 3, c.c., in tema di determinazione del compenso degli amministratori. A questo argomento tuttavia è sin troppo agevole replicare, in primo luogo, che le pur autorevoli opinioni dell’Agenzia delle Entrate non sono ovviamente vincolanti per l’interprete del diritto civile. In secondo luogo, ma è quel che più rileva, che la suddetta Risoluzione poggia su una motivazione francamente inaccettabile. Si legge infatti nella suddetta Risoluzione che non costruiscono reddito le spese sostenute dalla società per stipulare polizze «nell’interesse esclusivo» di sé stessa.

E nel caso delle polizze D&O, tale interesse «si sostanzia:

i) nell’obbligo, autonomamente assunto, di risarcire il danno patrimoniale subito dall’amministratore a causa di un’attività da cui trae beneficio la società;
ii) nel perseguimento di politiche aziendali rese più efficaci da una attività di gestione snella e libera da remore, grazie alla tranquillità psicologica dei propri amministratori non frenati dal timore di eventuali ripercussioni patrimoniali».

Sono, a parer mio, due argomentazioni niente affatto condivisibili. Quanto al primo punto, è agevole osservare che se la società si accolla i debiti dell’amministratore verso i terzi da lui danneggiati, l’amministratore per ciò solo realizza un vantaggio: evita di risarcire i terzi. Se, poi, la società a sua volta per non sostenere l’onere economico dell’accollo, per adempiere la sua obbligazione di garanzia stipula una polizza a favore dell’amministratore, il risultato non cambia: l’amministratore risparmia il costo della polizza, che avrebbe dovuto pagare di tasca sua. Quanto al secondo punto, esso è ancora più insostenibile, se non addirittura ridicolo. Poiché, vi si afferma, la polizza “tranquillizza” l’amministratore, egli lavorerà meglio, e ciò tornerà a vantaggio della società, che sarà meglio gestita. Ad argomenti di questo tipo sarebbe troppo facile replicare con l’eironèia socratica: a seguire il ragionamento della Agenzia delle Entrate, non costituirebbero fringe benefits nemmeno l’attribuzione all’amministratore di una Ferrari, di una villa alle Bahamas, di uno chalet a Cortina e di uno yacht a Capri, perché tutti questi beni gli renderebbero la vita più lieta e lui lavorerebbe meglio, con vantaggio della società (!).

6. Conclusioni

Spesso si sente dire che alcune polizze, per la complessità delle previsioni in esse contenute, possono diventare un “tranello” per l’assicurato. Le polizze D&O sono il contrappasso di questo aforisma: per i termini con i quali esse sono formulate, è facilissimo che si traducano in un tranello per l’intermediario (e, di rimbalzo, per l’assicuratore che del fatto del primo debba rispondere). È impensabile, infatti, pretendere di descrivere un rischio di responsabilità (civile) prescindendo dalle regole che quella responsabilità governano. Il frutto avvelenato di tale trascuratezza nella redazione delle condizioni generali è l’esporre l’intermediario alle rimostranze dell’assicurato, quando scoprirà di avere stipulato una polizza nulla. È quella che io chiamo la regola della “responsabilità al quadrato”: predisporre una polizza di r.c. senza riflettere sulle regole della r.c. cui è soggetto l’assicurato, fa sorgere una nuova e diversa r.c.: quella dell’intermediario verso l’assicurato.

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1 Ex multis, Cass., 5 luglio 2017, n. 16512; Cass., 1° dicembre 2016, n. 24567; Cass., 27 luglio 2011, n. 16417. In tutte queste decisioni si è stabilito che “il responsabile indiretto, che ha risarcito il danno in qualità di padrone o committente in ragione della solidarietà verso il danneggiato, può esercitare l’azione di regresso, nei confronti dell’autore immediato del danno, per l’intera somma pagata”.
2 Johnston, Corporate Indemnification and Liability Insurance for Directors and Officers, in The Business Lawyer, 1978, 1993 ss., il principio in questione è affermato a pagina 1994. L’opinione per cui il mandante (principal) debba tenere indenne il mandatario (agent) dei danni che il secondo causi a terzi si sviluppò per interpretazione pretoria da un altro principio, comune ai Paesi di civil law: quello secondo cui il mandante deve tenere indenne il mandatario delle spese affrontate per l’esecuzione del mandato, principio da noi stabilito dall’art. 1720 c.c., e affermato negli U.S.A. già da U.S. Supreme Court, 10 maggio 1893, Bibb vs. Allen. Ma già U.S. Supreme Court, 17 febbraio 1950, Differential Steel Car Co. vs. MacDonald, condannò il mandante non solo a rifondere al mandatario le spese sostenute, ma anche i danni che questi dovette pagare al terzo danneggiato. In realtà, nel caso appena ricordato, l’agente aveva venduto al Governo della Bolivia due locomotori costruiti dal mandante, e rivelatisi inefficaci per l’uso cui erano destinati. Il Governo della Bolivia domandò il risarcimento del danno da inadempimento all’agente del costruttore, e l’agente a sua volta domandò al costruttore di essere tenuto indenne. Un caso di questo tipo, secondo le regole del nostro ordinamento, non si sarebbe nemmeno potuto concepire, giacché il terzo danneggiato non avrebbe mai potuto domandare al mandatario con rappresentanza il risarcimento del danno da inadempimento.
3 U.S. Supreme Court, 19 luglio 1939, New York Dock Company Inc. vs. McCollum.
4 Monteleone e Conca, Directors and Officers Indemnification and Liability Insurance: An Overview of Legal and Practical Issues, in The Business Lawyer, 1996, 573 ss. Si tratta di uno scritto più citato che letto, dal momento che le citazioni trascurano completamente il punto di cui si dice nel testo.
5 Johnston, op. cit., 1998. I primi stati U.S.A. a dotarsi di norme siffatte furono lo Stato di New York ed il Delaware, e questa è la ragione per la quale in tema di polizze D&O è frequentemente richiamato, nei contributi dottrinari nordamericani, lo Statuto del Delaware.

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Marco Rossetti
Consigliere della Corte di Cassazione
Terza Sezione Civile