PREVIDENZA
Autori: Maria Elisa Scipioni e Alberto Cauzzi
ASSINEWS 376 – Luglio-Agosto 2025
Il decreto legge 112/2008, con l’art.19, ha disposto l’abolizione totale del divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro autonomo e dipendente. Pertanto, a partire dal 2009 in via generale si può lavorare dopo la pensione. Esistono, però, alcune eccezioni e limiti legati alla tipologia di prestazione pensionistica che si percepisce e che esamineremo in questo appuntamento.
Secondo l’indagine dell’Istat “Pensione e partecipazione al mercato del lavoro” relativa al 2023, un pensionato su dieci ha avuto almeno un’esperienza lavorativa dopo il pensionamento.
Tra i beneficiari di una pensione da lavoro tra 50 e 74 anni, questa la fascia di età della popolazione presa a riferimento dal focus, l’età media al pensionamento è pari a 60,9. Ovviamente, la curva dell’età di pensionamento presenta dei picchi di beneficiari in prossimità dell’età di pensionamento per vecchiaia precedentemente richiesta e in quella attualmente vigente: a 60 anni il 13,7% dei beneficiari e 67 anni l’11,8%.
L’aumento dell’età media di pensionamento risente fortemente degli effetti delle riforme che nel tempo, in particolare a partire dalla Riforma Fornero, quindi dal 2012, hanno inasprito i requisiti per accedere alla pensione. L’incidenza di quanti sono andati in pensione prima dei 60 anni è passata da circa il 90% registrato per gli anni antecedenti al 2009 a valori di poco superiore al 10% nel 2023, con una riduzione maggiore tra gli uomini.
Mediamente, le donne iniziano a percepire la pensione da lavoro leggermente più tardi rispetto agli uomini: l’età media è pari a 61,0 anni rispetto a 60,8 tra gli uomini. L’età media inoltre è più alta nel Mezzogiorno (62,3), tra gli stranieri (63,5) e tra i laureati (63,1), conseguenza per questi ultimi anche del posticipato ingresso nel mercato del lavoro rispetto alle persone meno istruite. Il 71,8% dei pensionati ha smesso di lavorare al momento della pensione e un ulteriore 17,4% non lavorava già da prima. Di contro, ben 712 mila individui, ossia il 10,8% dei pensionati tra i 50 e i 74 anni invece ha dichiarato di aver lavorato anche dopo aver iniziato a percepire una pensione.
Di questi, il 9,4% ha lavorato nei primi sei mesi successivi al momento del ricevimento della pensione (il 6,6% ha continuato a svolgere proprio lo stesso lavoro), mentre l’1,4% ha comunque svolto un lavoro, ma dopo sei mesi dalla pensione. Più della metà di coloro che hanno continuato a lavorare dopo la pensione dichiara di averlo fatto per soddisfazione personale e per continuare a essere produttivo nella società in cui vive. Il 29,7% lo ha fatto invece per una motivazione economica. In ogni caso, la presenza nel mercato del lavoro dei pensionati riguarda le generazioni più giovani, infatti, chi ha continuato o ha ripreso a lavorare per il 10% è nella fascia di età tra i 70-74 anni, mentre il 18,6% ha tra i 50 e i 59 anni. Come detto inizialmente, una volta ottenuta la pensione si può comunque continuare a lavorare, ma esistono alcuni limiti dettati dal tipo di prestazione pensionistica che si percepisce.
I redditi da lavoro, autonomo e dipendente, sono pienamente cumulabili con le pensioni di vecchiaia e anticipate che sono erogate nel sistema misto o retributivo. Mentre le pensioni liquidate interamente con il sistema contributivo sono cumulabili con i redditi da lavoro purché sia soddisfatta almeno una delle seguenti condizioni:
- siano stati maturati almeno 40 anni di contribuzione;
- siano stati compiuti almeno 61 anni di età e 35 anni di contribuzione;
- siano stati compiuti almeno 60 anni di età per le donne e 65 per gli uomini.
Non è compatibile invece con redditi da lavoro, se non quello autonomo, ma nel limite di 5.000 euro l’anno, la pensione Quota 100, sia nella sua versione originale del 2019, che in quelle successive (Quota 102 nel 2022 e Quota 103 nel triennio 2023-2024-2025). L’incumulabilità opera però per il periodo intercorrente tra la data di decorrenza della pensione e quella di maturazione del requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia. Qualora sia stato prodotto reddito da lavoro si avrà la sospensione della pensione nell’anno in cui sono stati percepiti i redditi nonché nei mesi dell’anno, precedenti quello di compimento dell’età richiesta per la pensione di vecchiaia, in cui sono stati percepiti tali redditi.
L’assegno ordinario di invalidità è compatibile con lo svolgimento di un’attività lavorativa, dipendente o autonoma. Essendo la soglia di invalidità per il riconoscimento dell’assegno pari a 2/3 della capacità lavorativa, il beneficiario può continuare a lavorare e a percepire reddito contemporaneamente alla prestazione previdenziale. Tuttavia, qualora i redditi da lavoro superino delle determinate soglie, la prestazione viene ridotta secondo le seguenti proporzioni:
a) in misura pari al 25% se il reddito ricavato da questa attività supera 4 volte l’importo del trattamento minimo annuo calcolato in misura pari a 13 volte l’importo mensile in vigore al 1° gennaio di ciascun anno;
b) in misura pari al 50% se il reddito ricavato da questa attività supera 5 volte l’importo del trattamento minimo annuo calcolato in misura pari a 13 volte l’importo mensile in vigore al 1° gennaio di ciascun anno.
Inoltre, qualora il rateo dell’assegno rimanga, dopo tali riduzioni, superiore al trattamento minimo Inps, subisce un’ulteriore riduzione. In tal caso la quota dell’assegno eccedente il trattamento minimo viene decurtata del 50% entro comunque l’importo dei redditi da lavoro percepiti. In caso di lavoratore autonomo la riduzione è pari al 30% della quota eccedente il trattamento minimo, ma in tale circostanza la riduzione non può essere superiore al 30% del reddito prodotto. Solo qualora l’assegno di invalidità sia determinato su un’anzianità superiore a 40 anni di contributi, ipotesi abbastanza improbabile, tale decurtazione non scatta.
Facciamo un esempio. Se un pensionato Inps ha un assegno di invalidità di 2.003 euro al mese e guadagna 600 euro al mese con redditi da lavoro dipendente, l’eccedenza della quota superiore al minimo Inps, cioè 1.400 euro (2003-603 euro) viene pagata solo per il 50%, ovvero per 700 euro. In totale la prestazione scenderà a 1.303 euro. La trattenuta comunque non può superare il reddito da lavoro percepito. Così la riduzione effettiva sarà pari a 600 euro al mese e il relativo importo dell’assegno scenderà a 1.403 euro al mese. Al compimento dell’età di vecchiaia, cioè quando l’assegno viene trasformato d’ufficio in pensione di vecchiaia, queste riduzioni non scattano più in quanto la prestazione di vecchiaia, come detto in precedenza, è compatibile pienamente con lo svolgimento dell’attività lavorativa.
La seconda riduzione viene trattenuta:
- sulla pensione dall’ente previdenziale se il pensionato è in possesso di redditi da lavoro autonomo;
- dal datore di lavoro, se dipendente, che deve poi provvedere al versamento di quanto dovuto all’ente che eroga la pensione;
- sugli arretrati di pensione dall’ente previdenziale, in caso di tardiva liquidazione della prestazione, se il pensionato presta attività lavorativa subordinata.
In caso di invalidità totale, quindi nel caso in cui il pensionato percepisca la pensione di inabilità, non è ammesso lo svolgimento di alcuna attività lavorativa, essendo la percezione della stessa non compatibile con prestazioni di lavoro subordinato o con attività di lavoro autonomo o professionale per definizione. Infine, occorre ricordare che anche la pensione ai superstiti (pensione di reversibilità o indiretta) subisce delle trattenute secondo regole precise in funzione degli altri redditi posseduti dai superstiti legittimi. In particolare questa regola non vale se la pensione spetta ai figli minori, studenti o inabili e si applica nella seguente misura:
A cura di Strumenti e Metodi per la Consulenza nel Mercato Assicurativo, Previdenziale, Finanziario
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