di Anna Messia
Negli ultimi mesi nel settore del brokeraggio assicurativo, da Howden ad Ardonagh, grandi player internazionali sono entrati nel mercato italiano nella convinzione che il Paese abbia ampi spazi di crescita per la diffusione delle polizze danni. Ma per ottenere profitti non necessariamente è indispensabile essere un grande broker, come emerge dal primo report dell’Osservatorio sul Brokeraggio Assicurativo promosso dal Consorzio Brokers Italiani in partnership con l’Università di Parma. Nel campione analizzato, si sono suddivisi i broker professionali in tre gruppi: piccoli, medi e grandi in funzione dei ricavi. Dalla prima analisi emerge, in particolare, che, nel periodo 2018-2020, l’utile dei piccoli broker (un cluster composto nel campione da 80 aziende), con ricavi medi nel periodo tra circa 870 mila euro e poco meno di 940 mila euro, ha registrato la crescita più consistente (507 mila euro), partendo, tuttavia, da una perdita avuta il primo anno media di 230 mila euro, soprattutto per l’incidenza fiscale.

I broker medi, con ricavi nel periodo considerato tra 1,3 e 1,9 milioni, (circa 25 aziende nel primo campione dell’Osservatorio) hanno registrato, nei tre anni considerati, un aumento dell’utile del 109%. A loro volta, i grandi broker, un cluster composto da 80 aziende con ricavi medi tra 19,6 e 22,3 milioni, hanno visto l’utile medio salire del 30%. «Dai primi risultati dell’Osservatorio emerge che non esistono economie di scala nel settore del brokeraggio assicurativo, ma a fare la differenza è la capacità imprenditoriale degli intermediari e del management team», commenta Claudio Cacciamani, professore del Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università di Parma. Dall’analisi emerge anche che nel 2020, nonostante la pandemia, c’è stata una generalizzata accelerazione della crescita dei cash flow dovuta al consolidamento del mercato e alla capacità dell’industria del brokeraggio assicurativo di reagire alla congiuntura avversa, di mercato. (riproduzione riservata)
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