La Corte di cassazione mette un freno a un’estensione a dismisura della responsabilità
In salvo la società che ha valutato erroneamente il rischio
Pagina a cura di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti

L’omissione della cautela non basta per condannare la società: è quanto stabilito dalla sentenza della Cassazione n. 22256 dell’8 giugno 2021, con cui la quarta sezione penale, in materia di infortuni sul lavoro, ha ritenuto di rifiutare un’applicazione automatica della responsabilità “231” che ne dilati a dismisura l’ambito di operatività ad ogni caso di mancata adozione di qualsivoglia misura di prevenzione (che pur implica sempre di per sé un risparmio di spesa); e ha così affermato che vada salvata la società laddove l’omessa adozione delle cautele possa essere riconducibile a una sottovalutazione del rischio o a un’errata valutazione delle misure di sicurezza necessarie alla salvaguardia della salute dei lavoratori, e in mancanza di altra prova che la persona fisica, omettendo di adottare tali cautele, abbia agito proprio allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica.

Il caso. La Corte d’appello di Firenze aveva confermato la sentenza di primo grado con la quale il datore di lavoro di una Srl era stato dichiarato colpevole del reato di lesioni colpose, aggravate dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, per l’incidente occorso a un dipendente, nonché, sulla base della valutazione per cui la condotta delittuosa fosse stata realizzata nell’interesse della società, questa era stata riconosciuta responsabile dell’illecito amministrativo di cui al dlgs 231/2001, art. 25-septies.

Specificamente, essendosi l’incidente concretato nello scontro tra il conducente di un carrello elevatore e l’addetto allo scarico del materiale in un impianto di selezione dei rifiuti, i giudici di merito lo avevano ricondotto causalmente all’omessa organizzazione del luogo di lavoro e alla carenza di regolamentazione della circolazione nonché di una viabilità sicura, e avevano individuato il vantaggio e quindi la responsabilità dell’ente nella riduzione dei costi per l’attività del consulente per la revisione del Duvri e nell’aumento della produzione come conseguenza della mancata adozione di apposite cautele.

Presentando ricorso per Cassazione, la società lamentava come apodittica la suddetta ricostruzione, negando un qualsivoglia vantaggio.

231 e reati colposi. Dunque, la Suprema Corte ha ritenuto il ricorso meritevole di accoglimento, offrendo un completo excursus degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità 231 e reati colposi, e aderendo a un indirizzo garantista.

Si tratta di un argomento che negli anni ha sollevato il dibattito tra gli interpreti: non pochi interrogativi sono sorti a seguito della estensione dell’ambito applicativo della normativa in tema di responsabilità amministrativa dell’ente ai reati colposi (operato dall’art. 25-septies del dlgs n. 231/2001, che ha incluso, tra i c.d. reati presupposto, l’omicidio colposo e le lesioni colpose gravi o gravissime commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro).

Specificamente, premesso che presupposto per fondare la responsabilità della società è che la condotta illecita sia stata realizzata nel suo interesse o vantaggio, si è posto il problema della compatibilità logica tra la non volontà dell’evento, che caratterizza gli illeciti colposi, e il finalismo che è sotteso all’idea di interesse, rilevando come, nei suddetti casi, sia ben difficilmente ipotizzabile un caso in cui l’evento lesivo corrisponda a un interesse o a un vantaggio dell’ente.

Vantaggio e interesse dell’ente. Pertanto, in motivazione, gli Ermellini hanno tenuto a ricordare come in tema di responsabilità da reato degli enti derivante da reati colposi di evento, costituiscono principi ormai consolidati quelli secondo cui i concetti di interesse e vantaggio vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’evento (Cass. pen., sez. IV, n. 2544/2015; sez. u., n. 38343/2014).

Peraltro, tali criteri di imputazione oggettiva sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito (Sez. IV, n. 38363/2018).

Quanto al requisito dell’interesse, esso ricorre quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi di impresa. Ricorre invece il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, sempre pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, e dunque ha realizzato una politica di impresa disattenta alla materia della sicurezza sul lavoro, consentendo una riduzione dei costi e un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto (sez. IV, n. 16598/2019; Sez. IV, n. 24697/2016).

A ciò si aggiunga che il risparmio in favore dell’impresa, nel quale si concretizzano i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall’interesse e dal vantaggio, può consistere anche nella sola riduzione dei tempi di lavorazione, o nella velocizzazione degli interventi manutentivi (Sez. IV, n. 29538/2019).

La prova necessaria. Ciò che tuttavia è pur sempre necessario, è rinvenire un collegamento tra l’azione umana e la responsabilità dell’ente che renda questa compatibile con il principio di colpevolezza (evitando che l’affermazione della responsabilità dell’ente consegua automaticamente, una volta dimostrati il reato presupposto e il rapporto di immedesimazione organica dell’agente, e assicurando che la persona fisica abbia agito nel suo interesse e non solo approfittando della posizione in esso ricoperta), dovendosi escludere dal novero delle condotte a tal fine rilevanti quelle sostenute da coscienza e volontà, ma non anche dall’elemento della intenzionalità, cioè dallo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica.

In altre parole, va impedita un’applicazione automatica della norma che ne dilati a dismisura l’ambito di operatività a ogni caso di mancata adozione di qualsivoglia misura di prevenzione (che implica quasi sempre un risparmio di spesa il quale può, però, non essere rilevante): è il giudice di merito a dover valutare l’eventuale esiguità del risparmio di spesa derivante dall’omissione delle cautele dovute, in un contesto di generale osservanza da parte dell’impresa delle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro, e in mancanza di altra prova che la persona fisica, omettendo di adottare tali cautele, abbia agito proprio allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica.

In sostanza al giudice è rimessa la valutazione se l’omessa adozione delle cautele dovute sia plausibilmente riconducibile anche a una semplice sottovalutazione del rischio o a un’errata valutazione delle misure di sicurezza necessarie alla salvaguardia della salute dei lavoratori, poiché, ai fini del riconoscimento del requisito del vantaggio, occorre la prova della oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto su quella della tutela della salute dei lavoratori quale conseguenza delle cautele omesse: la prova, cioè, dell’effettivo, apprezzabile vantaggio (consistente nel risparmio di spesa o nella massimizzazione della produzione), che può derivare anche dall’omissione di una singola cautela e dalla mera riduzione dei tempi di lavorazione, ma non è comunque mai desumibile, di default, dall’omessa adozione della misura di prevenzione dovuta.

Posto che la motivazione della sentenza impugnata è risultata carente proprio sotto questo profilo, da qui l’annullamento con rinvio per procedere a nuovo esame in ordine alla sussistenza del criterio di imputazione dell’interesse o vantaggio.

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