Le falsità nelle attestazioni per il bonus possono costare molto care, a professionisti e clienti
Dietro l’angolo anche le contestazioni penal-tributarie
Pagina a cura di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti

Bonus 110%, ogni giorno novità, con un’unica costante: il rischio di incorrere in un reato, sia per i professionisti che per i clienti. E seppur il legislatore, a differenza di altre situazioni, nel dettare la disciplina del bonus e delle attestazioni correlate, non ha espressamente fatto riferimento alle disposizioni codicistiche che troveranno applicazione in caso di falsità, all’interno del codice penale e della normativa di settore si rinvengono numerose fattispecie criminose di cui si potrebbe essere chiamati a rispondere.

Reati di falso. Per inquadrare quale reato sarà contestato nel caso di falsità avente a oggetto una delle varie attestazioni richieste per eccedere al bonus 110%, va considerato che la legge impone il vaglio di un soggetto dotato di una particolare abilitazione o dell’appartenenza a un ordine professionale. In altre parole è richiesto il possesso di quelle caratteristiche proprie dei soggetti che esercitano un servizio di pubblica necessità, ovvero di quei privati che, secondo la definizione di cui all’art. 359 c.p., svolgono «altre professioni (diverse dalle professioni forense e sanitarie) il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato quando dell’opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi».

Viene perciò in rilievo l’art. 481 c.p. punisce con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 51 a euro 516 proprio chi, nell’esercizio di una professione sanitaria o forense, o di un altro servizio di pubblica necessità, attesta falsamente, in un certificato, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. Ma vi è di più, poiché laddove la dichiarazione del privato sia diretta a un pubblico ufficiale e sia destinata ad integrare un atto pubblico, la norma (più grave) di riferimento è l’art. 483 c.p., che punisce, con la reclusione fino a due anni, chi attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.

Falso in atto pubblico. Ecco allora a fare attenzione: infatti l’Ape e le asseverazioni richieste per gli interventi di cui all’art. 119 c. 1, 2 e 3 decreto Rilancio devono essere redatte nelle forme e agli effetti descritti dall’art. 47 dpr 445/2000, ossia quali dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà. A propria volta, l’art. 76 comma 3 del summenzionato dpr (richiamato dal dm c.d. «Asseverazioni») precisa che le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi dell’art. 47 si devono considerare come fatte al pubblico ufficiale in atto pubblico: ma la conseguenza derivante da questa equiparazione normativa sarà che il falso ideologico commesso dal tecnico abilitato, essendo considerato come destinato ad un pubblico ufficiale, assumerà rilievo ai sensi dell’art. 483 c.p. avendo la stessa dichiarazione ex lege valenza probatoria privilegiata. Peraltro, il medesimo art. 76 al comma 1 prevede che «la sanzione ordinariamente prevista dal codice penale è aumentata».

Solo per il visto di conformità (e le attestazioni relative agli interventi antisismici), non essendo normativamente previsto che debbano essere prodotti nella forma della dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, la falsità comporterà il rispondere del più lieve delitto di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità.

Infine, quanto alla relazione tra l’illecito penale e quello amministrativo previsto dall’art. 119 c. 14 decreto, che sanziona il rilascio di attestazioni o asseverazioni infedeli, la clausola di salvaguardia «Ferma l’applicazione delle sanzioni penali ove il fatto non costituisca reato» comporta che la sanzione penale e quella amministrativa non possono concorrere, e l’illecito amministrativo troverà pertanto applicazione solo nei casi in cui non vi sia il reato, come nel caso di assenza di dolo e di mero errore nell’asseverazione.

Assenza dei requisiti e dichiarazione fraudolenta. E non è ancora tutto, potendo essere commesso anche un illecito penal-tributario. In particolare, quando vi è stata realizzazione effettiva dei lavori, con corrispondente emissione di fatture, ma si è registrata falsità in ordine alla corrispondenza tecnica o normativa ai requisiti per l’accesso alla detrazione fiscale, assume rilievo l’art. 3 dlgs 74/2000, che punisce con la reclusione da 3 a 8 anni la dichiarazione fraudolenta di chi si avvalga di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria mediante altri artifici.

Il concetto di mezzo fraudolento ben si concilia infatti con la predisposizione delle asseverazioni e degli attestati ideologicamente falsi o con le altre azioni che potrebbero consentire di accedere al beneficio o di ottenerlo in misura superiore al dovuto, considerato che lo stesso legislatore, nelle Definizioni di apertura al dlgs 74/2000, chiarisce che per «mezzi fraudolenti» si intendono condotte artificiose attive nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà.

Per l’integrazione del reato dovranno essere tuttavia superate entrambe le soglie di punibilità previste dalla norma, ovvero l’imposta evasa dovrà attestarsi oltre i 30 mila euro e l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta deve essere superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a 30 mila euro.

Opere mai realizzate o sovrafatturate. Laddove invece la condotta fraudolenta abbia a oggetto opere mai realizzate o compiute solo in parte o, ancora, lavori sovrafatturati, in capo a chi utilizzi le fatture in dichiarazione troverà applicazione il delitto di «Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti» di cui all’art. 2, dlgs 74/2000, mentre in capo all’impresa che esegue i lavori, e quindi che emette le fatture, sarà dunque configurabile il delitto previsto dall’art. 8 dlgs 74/2000.

Pacifico infatti l’indirizzo giurisprudenziale (cfr. Cass. pen. n. 51027/2015) secondo il quale tale reato sussiste sia quando la stessa non sia stata mai posta in essere nella realtà, sia quando l’operazione vi è stata, ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, in quanto oggetto della repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale.

Indebita compensazione. Infine, va preso in esame il caso in cui il soggetto terzo (fornitore dell’opera mediante sconto in fattura o terzo estraneo alle opere), consapevole della assenza dei requisiti per accedere al beneficio e delle azioni fraudolente sopra descritte. sia divenuto titolare del credito di imposta e ne abbia fatto uso ai fini del calcolo dell’imposta netta.

Considerando che il credito di imposta viene utilizzato direttamente nella liquidazione dell’imposta attraverso la compilazione del modello F24, nella frazione spettante per ciascuna annualità di imposta,ml’imputabilità del credito in compensazione dell’imposta lorda rende applicabile l’art. 10-quater dlgs 74/2000, che al comma 2 punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni proprio chi non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, crediti inesistenti. Quale soglia di punibilità, l’importo annuo dei suddetti crediti deve essere superiore ai cinquantamila euro.

Fonte:
logoitalia oggi7