Le politiche monetarie super-espansive sembrano destinate a comprimere i rendimenti ancora molto a lungo. Dai fondi alle polizze, in un tale scenario risparmiare sulle commissioni può fare la differenza

di Paola Valentini
L’inizio di questi anni ‘20 ha messo la parola fine a un decennio di rally di azioni e obbligazioni, all’apice della dinamica al ribasso dei tassi e inflazione iniziata 30 anni prima e del boom della globalizzazione. «La storia ci insegna che l’economia e i mercati finanziari sono dominati da regimi a lungo termine che a un certo punto arrivano a un punto di rottura, dove un regime cede il passo ad uno nuovo», premette Pascal Blanqué, group chief investment officer di Amundi. E proprio «la pandemia di Covid-19 è la tempesta perfetta che ci porterà verso una nuova era nel lungo periodo ma anche con implicazioni nel breve termine», aggiunge Blanqué.
Sul fronte economico il Covid-19 sta facendo tramontare la tendenza all’austerità fiscale dominante negli ultimi anni a favore di una politica estremamente accomodante. La crisi è combattuta con misure senza precedenti. «Ci aspettiamo che le banche centrali e i governi continuino a spingere, ai massimi livelli possibili, i loro strumenti per combattere la recessione causata dalla pandemia», dice Blanqué. «La pandemia è la mano invisibile che innesca il processo di ritorno dei rendimenti azionari in linea con il loro trend sostenibile di lungo termine», prevede Blanqué.
È il fenomeno noto come repressione finanziaria, una dinamica nemica dell’investitore perché riduce le performance attese sulle attività finanziarie. «La prospettiva di bassi tassi per un periodo di tempo più lungo e di un aumento degli utili più basso in un contesto di crescita debole della produttività porta a aspettative di rendimenti contenuti per il prossimo decennio», dice Blanqué. Secondo le previsioni di Amundi, un portafoglio bilanciato in euro renderà da qui al 2030 un modesto 3,5%, rispetto al 6,7% dei dieci anni tra il marzo 2010 e il marzo 2020. Ciò implica che nell’effettuare scelte di allocazione, gli investitori dovrebbero cercare di ridurre i costi. «Alla ricerca di un potenziale di rendimento più elevato, gli investitori continueranno probabilmente a tagliare i costi e anche a orientarsi verso un’asset allocation più rischiosa», conferma Blanqué.
La riduzione delle commissioni nell’industria del risparmio gestito è una tendenza già in atto per via della diffusione degli Etf a basso costo che ha messo sotto pressione anche i fondi a gestione attiva. «Questo trend è stato marcato negli Stati Uniti, dove le commissioni dei fondi comuni si sono ridotte di circa il 40% nell’ultimo decennio», afferma Blanquè. L’Europa tenta di seguire la stessa strada con la Mifid II, la normativa che dallo scorso anno ha introdotto il rendiconto sui costi degli investimenti finanziari con l’indicazione delle spese sostenute dai risparmiatori non soltanto in percentuale, ma in anche misura fissa. Il problema è che pochi leggono questo documento. Ad esempio, in Italia uno studio di Ubs di fine 2019 rileva che lo scorso anno soltanto un quarto degli investitori lo ha analizzato. E il margine per una riduzione delle commissioni è alto proprio in Italia come emerge dall’indagine biennale di Morningstar (Global Investor Experience) che ha messo sotto la lente i costi dei fondi in 26 Paesi europei. Da questo report emerge che l’Italia si piazza penultima, al 25° posto, sul fronte degli oneri dei comparti azionari di diritto italiano con un indicatore di spesa mediano del 2,02%, peggio soltanto di Taiwan (2,05%). Lo studio ha analizzato i fondi aperti disponibili al retail calcolando, secondo una propria metodologia, l’indicatore di spesa sulla base delle spese ricorrenti di ciascun comparto, quindi commissione di gestione, di performance e di distribuzione (se sono già incorporate nel costo del fondo) e anche quelle di amministrazione e custodia. Sempre sul fronte della trasparenza il mercato attende nel 2022 i Kid (Key Information Document) per i fondi comuni, il documento informativo che le società dovranno mettere a disposizione prima della sottoscrizione. In poche pagine fornirà uno schema che illustra l’impatto dei costi sull’investimento nel tempo con il dettaglio delle singole tipologie di costo dei fondi sul modello del Kid già in vigore dal 2018 per polizze Vita e altri strumenti di investimento. Grazie ai nuovi documenti informativi numerosi dati delle polizze Vita sono diventati evidenti. A partire dagli scenari di performance che riportano una stima (al netto dei costi) di quanto il sottoscrittore può ottenere dopo un certo numero di anni dalla polizza, sulla base della somma investita e di diverse ipotesi di mercato. C’è anche una maggiore analisi dei costi. Per esempio, è possibile scoprire quanta parte delle commissioni viene retrocessa ai collocatori. Tutti sforzi che mirano a rendere consapevoli i risparmiatori di quanto spendono effettivamente, «in un mondo in cui qualsiasi ulteriore punto base di rendimento sarà un bene prezioso», sintetizza Blanqué.

Nel campo della gestione attiva una strada low cost è quella di sottoscrivere i fondi quotati in Borsa Italiana (nel segmento AtFund) che si possono acquistare e vendere agli sportelli della propria banca, nell’home banking o utilizzando una piattaforma di trading. I primi fondi comuni aperti sono stati quotati nel 2014 sul segmento dedicato all’interno nel mercato Etfplus e poi nel 2018 Borsa Italiana ha creato AtFund. La negoziazione in borsa permette di avere commissioni più basse perché non c’è la quota che va a remunerare il collocatore, e quindi il costo dovrebbe riflettere soltanto le commissioni di gestione. Le spese di distribuzione che vanno a remunerare le reti di collocamento in media fanno lievitare il conto finale di tre volte rispetto alla sola commissione di gestione.
Un altro ambito in cui il costo per il risparmiatore può essere tenuto sotto controllo è quello dei conti correnti. A maggior ragione considerando che, come è emerso dalle ultime rilevazioni della Banca d’Italia, a fine 2019 un terzo della ricchezza finanziaria delle famiglie italiane, circa 1.500 miliari di euro, è parcheggiato in conti e depositi. Anche sul fronte dei c/c la normativa sulla trasparenza ha fatto molti passi avanti e da quest’anno le banche sono obbligate a pubblicare un prospetto ad hoc per dare ai risparmiatori un’idea di quanto può costare il conto prima della scelta: il Documento informativo sulle spese che riporta tutte le voci che il c/c prevede. E oltre all’estratto conto e al documento di sintesi aggiornato, sarà inviato ai correntisti a partire da quest’anno il Riepilogo sulle spese, un foglio a parte che illustra tutti i costi effettivamente applicati al conto corrente nel periodo di riferimento. Documento informativo sulle spese e Riepilogo sulle spese, redatti secondo gli standard europei, dovranno consentire al consumatore di individuare i costi cui incorre e, a tal fine, riportano l’Indicatore dei Costi Complessivi (Icc) calcolato dalle banche secondo le modalità stabilite dalla Banca d’Italia per profili di utilizzo e canale (online o sportello). L’Icc consente di fare confronti tra le varie offerte. MF-Milano Finanza ha raccolto gli Icc dei conti delle maggiori banche (sia tradizionali sia online) riferiti al profilo di una famiglia con operatività media (228 operazioni l’anno) in filiale o online (tabella in pagina). Dall’analisi di questi dati risulta che ci sono differenze notevoli tra i costi dei vari conti e soprattutto emerge che si possono ottenere risparmi cospicui utilizzando solo online i c/c delle banche classiche o andando sulle banche digitali. Ad esempio tra queste ultime il conto Webank ha un Icc per operatività online pari a zero, Widiba (gruppo Mps) di 20 euro e Illimity di 45,86 euro. Tra gli istituti che invece ruotano attorno alle filiali, l’Icc del conto Facile del Credem è di 95,8 euro per l’operatività allo sportello e di 75,85 euro per quella online, My Genius di Unicredit di 239,9 euro (139 euro online) e il conto Xme Conto di Intesa Sanpaolo di 204,8 euro (190 euro online), ma con la promozione per aperture fino al 30 giugno prossimo l’Icc per il primo anno scende a 145,3 euro (130,5 online).

Dopo il Covid i portafogli passivi costeranno più cari
La crisi ha cambiato il destino della gestione attiva. «Gli investitori dovrebbero chiedersi se vale la pena optare sugli strumenti passivi a basso costo che potrebbero finire col costare cari, soprattutto per la mancata opportunità di avvalersi di un approccio attivo capace», afferma Yoram Lustig, head of multi-asset solutions per l’area Emea di T. Rowe Price, che identifica cinque aree che in questa fase conferiscono alla gestione attiva un vantaggio.
1 Performance divergenti. «Uno dei prerequisiti del successo della gestione attiva è la varietà. La crisi ha provocato una dispersione che i gestori abili possono sfruttare. Ad esempio, in un mondo dominato da una crisi sanitaria, l’healthcare, la tecnologia per la connettività e l’e-commerce potrebbero rappresentare dei vincitori di lungo termine. All’opposto, la battuta d’arresto dell’economia mina la domanda per le commodity e i trasporti, mettendo a dura prova anche le banche e i negozi fisici», dice Lustig. Il primo trimestre 2020 ha confermato questi trend. Alcuni titoli azionari di aziende leader, come Chevron, Exxon Mobil e Boeing, sono scesi di circa il 40% o più, mentre altri hanno perso meno del 10%, inclusi Microsoft e Intel. I rendimenti dei settori dell’S&P 500 hanno spaziato dal -30% dei finanziari e il -50% dell’energia al -15% di healthcare e It. «I portafogli possono battere l’indice, grazie all’ampio margine che separa i vincitori dai vinti», aggiunge Lustig.
2 La volatilità corre in aiuto alla gestione attiva. Una delle caratteristiche dell’ultimo decennio è stata la bassa volatilità. Volatilità che invece si è impennata nel 2020, con l’indice Vix salito sui massimi storici. «L’era della bassa volatilità potrebbe essere giunta al termine e questo è un bene. La volatilità crea opportunità», sostiene il gestore di T. Rowe Price.
3Gestione delle crisi. Nel primo trimestre del 2020 i prezzi del petrolio hanno perso oltre il 50%, sostenendo i portafogli con una bassa impronta di carbonio. «Gli investimenti Esg non sono stati solo premiati con rendimenti superiori, ma forse hanno anche alimentato gli sforzi per affrontare l’altra crisi globale, messa in ombra dal coronavirus: il cambiamento climatico», ricorda Lusting secondo cui «la gestione attiva si addice meglio ai criteri Esg rispetto a quella passiva, non solo perché può escludere determinate aziende, ma anche perché può premiare le imprese che potrebbero contribuire a gestire le crisi, sviluppando energia pulita, promuovendo l’uguaglianza sociale e aderendo a pratiche di buona governance».
4 Distruzione costruttiva. Rappresenta il processo naturale per cui le aziende con business deboli non sopravvivono, mentre quelle con attività redditizie, bilanci solidi e flussi di cassa sostenibili sì. «In questo processo, tramite una ricerca sui fondamentali, i money manager possono identificare i vincitori che sapranno superare la crisi ed evitare i vinti», evidenzia Lustig.
5 Nuovi trend. Il ritmo del cambiamento sta aumentando in un mondo in costante evoluzione. «I gestori attivi possono essere versatili e dipendere meno dal passato», osserva Lustig. In conclusione, quando il futuro imbocca una nuova via e gli investitori devono riprogrammare la rotta «affidarsi a trend e relazioni passate non è la soluzione migliore perché le regole cambiano e gli investitori in grado di adattarsi avranno successo. I portafogli passivi, per definizione, sono basati sul passato, non sul futuro. Solo la gestione attiva può immaginare e adattarsi al futuro», conclude Lustig. (riproduzione riservata)

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