di Stefano Lorenzetto
Dopo quasi mezzo secolo trascorso con la mascherina calata su naso e bocca, nei giorni del coronavirus il cardiochirurgo Alessandro Mazzucco può, da presidente della Fondazione Cariverona, prendersi la libertà di parlare senza bavagli con il cronista e di consentire all’interlocutore di fare altrettanto. Nel Palazzo Pellegrini di via Achille Forti gli spazi per mantenere le distanze di sicurezza non mancano di certo. La sede dell’ente più importante di Verona – primo azionista italiano di Unicredit, al quinto posto nella classifica delle 88 fondazioni bancarie d’Italia e nel ristrettissimo gruppo delle dieci con un patrimonio a nove zeri – sembra più che altro un museo. E non solo per le dimensioni. In ogni salone, in ogni corridoio, in ogni ufficio t’imbatti in artisti che dal passato remoto (Jacopo Bassano, Bernardo Bellotto, Gaspare Vanvitelli, Abraham Brueghel, Jacopo Palma il Giovane, Felice Brusasorzi, Paolo Farinati) ti accompagnano fino al secolo scorso (Beppe Ciardi, Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Mario Sironi, Filippo De Pisis, Giorgio Morandi, Renato Guttuso, Gino Severini, Giacomo Manzù, Ardengo Soffici, Alberto Savinio, Angelo Dall’Oca Bianca, Emilio Vedova). In tutto 952 fra dipinti e sculture.

Dal 14 novembre di 35 anni fa, quando a Padova entrò in sala operatoria con Vincenzo Gallucci per eseguire su Ilario Lazzari il primo trapianto di cuore in Italia, sono pochi i rischi che riescono a impensierire Mazzucco. «Quella notte il mio maestro si recò all’ospedale di Treviso a prelevare l’organo donato dai familiari di Francesco Busnello, un ragazzo di 18 anni morto cadendo dal motorino. Al suo ritorno, trovò Lazzari pronto a riceverlo, con il torace già aperto da me e la circolazione extracorporea attivata. Un caso che è rimasto unico».

Mazzucco è arrivato al vertice di Cariverona nel 2016, tre anni dopo aver lasciato l’Università di Verona, di cui è stato rettore a partire dal 2004. Quattro mesi fa il consiglio della fondazione bancaria gli ha rinnovato il mandato per un altro quadriennio. Nato nel 1944 a Venezia, nel sestiere di Castello, a due passi da Santa Maria Formosa, dal 1991 risiede a Verona. Ha imparato ad affrontare le emergenze all’età di 6 anni, scivolando in acqua dalla barca del cugino davanti a Burano: «In quei casi, o impari a nuotare o affoghi».

Diventare medico fu per lui la cosa più naturale di questo mondo, visto che il padre Giorgio era un dermatologo dell’ospedale di Venezia, specializzato nelle malattie veneree, aiuto del famoso primario Giovanni Battista Fiocco, luminare del ramo che morì a Sommacampagna nel 1946. Nell’ambulatorio paterno il piccolo Alessandro trafficava con i vetrini del microscopio e osservava la processione delle prostitute che si recavano dal genitore per i controlli periodici contro la sifilide. «Una di loro, originaria di Formia, alla fine rimase a nostro servizio come domestica». Sua madre Lidia era la segretaria di Achille Gaggia, nominato vicepresidente della Sade, la società elettrica del Triveneto, dal conte Giuseppe Volpi di Misurata. Lasciò l’incarico per crescere i cinque figli: «Io sono il secondogenito». Nella villa che Gaggia possedeva a San Fermo, presso Belluno, il 19 luglio 1943 s’incontrarono Adolf Hitler e Benito Mussolini per organizzare la controffensiva dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia.

Mazzucco conseguì la laurea in medicina e chirurgia a Padova nel luglio 1968, «giusto in tempo per passare dalla parte dei contestatori, gli studenti, a quella dei contestati, i docenti», sorride. Nella stessa università si specializzò in chirurgia generale. Seguì la specializzazione in chirurgia cardiaca e vascolare a Torino, alla scuola del professor Francesco Morino, genero del grande Achille Mario Dogliotti, il cardiochirurgo che operò Fausto Coppi e fu chiamato anche al capezzale di Mao Tse-tung e Palmiro Togliatti. E poi arrivò una terza specializzazione in chirurgia toracica a Bologna.

Ma la vera passione del professor Mazzucco è stata la cardiochirurgia pediatrica. Nel 1972, su consiglio di Gallucci, andò a lavorare all’Hospital for sick children del Great Ormond Street di Londra, il centro mondiale d’eccellenza per questa disciplina. Seguirono due anni negli Stati Uniti, al Children’s hospital medical center di Boston, diretto da Aldo Ricardo Castañeda, nato a Genova, figlio dell’ambasciatore del Guatemala in Italia. «Eravamo in pochi chirurghi, si viveva per lavorare. Quando tornavo a casa, stavo male pensando ai bambini malati che avevo lasciato in reparto».

Sposato con Francesca Zennaro, fino alla pensione insegnante di scienze naturali e matematica, Mazzucco ha due figlie. Sara, 47 anni, ha seguito le sue orme: ha lavorato al Policlinico di Verona e oggi è neurologa nel Nuffield department of clinical neurosciences di Oxford, dove studia l’emodinamica cerebrale; Marta, 45, si è laureata in storia dell’arte e poi specializzata nel restauro di opere antiche a Mantova. Il primo dei quattro nipoti del presidente di Cariverona, Francesco, figlio di Sara, a 19 anni è appena stato accettato all’Università di Oxford per studiarvi latino e greco.

Mi spiega come ha fatto un cardiochirurgo ad arrivare qui?

Mi telefonò l’avvocato Giovanni Sala, vice di Paolo Biasi, il mio predecessore: «Il presidente ti deve fare una proposta che non si può rifiutare».

Come quella del Padrino.

Esatto. Biasi mi spiegò che non poteva essere rieletto e dunque gli spettava il compito d’indicare il suo successore, il quale, per statuto, dev’essere veronese. «Tu sei la persona giusta. Ci stai?». Come rettore dell’università, di Cariverona ero stato solo un affezionato cliente, per così dire, nel senso che avevo chiesto parecchi finanziamenti. La proposta mi spiazzò. Chiesi: ma perché proprio io? «Perché ti considero una persona saggia», rispose Biasi. Mi presi il tempo per pensarci e alla fine accettai, ponendo una condizione: che accanto a me ci fosse un direttore generale forte. Fu individuato in Giacomo Marino, veronese laureato alla Bocconi, con esperienze in Kpmg ed Ernst & Young, dal 2006 al 2010 in Merrill Lynch a Londra e poi, sempre nella capitale britannica, presso il gruppo Ubs, l’Union des banques suisses.

Quindi fra quattro anni, non potendo avere un terzo mandato, toccherà a lei fare la stessa cosa. Ha già la fila fuori dalla porta?

Ho la fila di pretendenti che vorrebbero entrare nel consiglio di amministrazione, composto da otto persone nominate insieme al presidente. Ma toccherà al consiglio generale, formato da 24 componenti, votare i prescelti dalla terna di candidati. Il nostro nome per esteso è Fondazione Cassa di risparmio di Verona Vicenza Belluno e Ancona. Serviamo un territorio con 3 milioni di abitanti.

Siete il quarto azionista di Unicredit dopo Blackrock, Norges bank e Dodge & Cox.

Il problema è che cosa fare di questa partecipazione dell’1,8 per cento. L’abbiamo in carico a circa 23 euro per azione, quando invece la quotazione è intorno ai 7. Prima del Covid-19, l’amministratore delegato Jean Pierre Mustier aveva promesso i dividendi, ma la Bce li ha bloccati. Non sappiamo che succederà.

Che patrimonio ha Cariverona?

A valori di mercato ammonta a 1,5 miliardi di euro. Per il 25 per cento è fatto da azioni, in larga parte di Unicredit. Un altro 30 per cento è rappresentato da immobili, enormi palazzi che è impossibile mettere a reddito. Il direttore Marino è stato molto abile nel far fruttare il restante 45 per cento, impiegandolo in fondi d’investimento. Gli utili netti della gestione finanziaria del patrimonio vengono interamente devoluti per scopi di utilità sociale, economica e culturale. Nel 2019 abbiamo erogato 35 milioni di euro. Nel primo triennio erano 40 milioni l’anno.

Quando parla di «enormi palazzi» a quali immobili si riferisce?

A questo in cui ci troviamo, per esempio, francamente sovradimensionato per un ente che ha 40 dipendenti. All’ex sede della Cassa di risparmio di via Garibaldi, chiamata il Quadrilatero, tanto è ampia. A edifici storici come Castel San Pietro, il Palazzo del Capitanio, noto anche come Palazzo di Cansignorio o del Tribunale, affacciato su piazza dei Signori, il Palazzo Forti, il Monte di pietà. L’urbanista Marino Folin, ex rettore dell’Iuav, l’Istituto universitario di architettura di Venezia, ha preparato un piano per valorizzarli.

Come?

Nella vecchia sede ha previsto un centro congressi che cambierebbe il volto alla città. Ma serve una variazione di destinazione d’uso e dal Comune finora sono arrivate solo risposte vaghe.

Del recupero di Castel San Pietro si parla da decenni.

Abbiamo restaurato gli esterni. Il piano Folin prevede che da lì si diparta un percorso per ricostruire le origini di Verona dall’età romana al Medioevo, per arrivare infine al Settecento: re Teodorico, gli Scaligeri, l’esilio di Dante, Shakespeare, Mozart. Lo sapeva che il genio di Salisburgo non suonò soltanto l’organo di San Tomaso Cantuariense ma anche, molto probabilmente, un fortepiano tuttora custodito nella biblioteca dell’Accademia Filarmonica?

No, non lo sapevo.

Sul tetto di Castel San Pietro l’architetto Folin immagina una serie di strumenti ottici che consentiranno di vedere il panorama di Verona nel corso dei secoli. Che cosa Cariverona sia in grado di fare lo ha già dimostrato recuperando il teatro Ristori, divenuto un riferimento per la musica barocca in Italia. Un’operazione fortemente voluta da Biasi.

Quante richieste di aiuto ricevete in un anno?

Circa 800. Ne soddisfiamo suppergiù la metà. Procediamo per bandi con importi minimi e massimi, ai quali possono accedere solo enti apolitici e senza finalità di lucro.

Immagino che il coronavirus farà aumentare le richieste.

Abbiamo già stanziato 2 milioni di euro per la ricerca. Dai Comuni arrivano pressioni per avere soldi con cui soccorrere la popolazione. Ma finora nessuno di essi ci ha presentato un piano per riscuotere i finanziamenti.

È incredibile.

Siccome sono previste anche iniziative dirette della fondazione, ho deciso che andrò io dai sindaci a spiegare che potremmo erogare 2 milioni di euro in buoni pasto, da spendere presso ristoranti e gastronomie, in modo da aiutare i bisognosi e nel contempo impedire che falliscano gli esercizi commerciali.

Ignoravo che i nostri politici fossero scarsi persino nella carità.

Voglio un bene dell’anima a Verona, fin dai tempi in cui abitavo a Venezia. Ho vissuto per 23 anni a Padova, ho lavorato in molti ospedali. Ma la gente che ho trovato qui non c’è da nessuna parte. Gli infermieri veronesi non hanno uguali nel mondo. Sono una ricchezza assoluta della città.

Secondo Il Foglio lei era molto vicino a Flavio Tosi.

Quando diventai rettore dell’università, lavorai invano per due anni con l’assessore regionale alla Sanità, Fabio Gava, per stendere il protocollo d’intesa sull’Azienda ospedaliera universitaria integrata. Arrivato Tosi al suo posto, in due mesi lo firmammo. Non si può dire che all’ex sindaco facciano difetto la capacità d’intuire i problemi e la rapidità nel risolverli.

Che cosa è accaduto fra Cariverona e Cattolica assicurazioni?

Avevamo comprato la quota che la Banca popolare di Vicenza deteneva nella compagnia e che ha dovuto vendere in seguito al crack. Credevamo nel progetto di Alberto Minali. Quando con sorpresa, durante un viaggio in treno, ho appreso che l’amministratore delegato era stato defenestrato, a novembre abbiamo cominciato a vendere, nella previsione che le cose non sarebbero andate bene. Mi pare che le notizie degli ultimi giorni ci stiano dando ragione. Fra l’altro, la catastrofe di Bpvi ora pesa interamente sulle nostre spalle, perché il territorio vicentino per i suoi bisogni può contare solo su Cariverona.

Ha nostalgia dell’ospedale?

Molta. Ma non ho più rimesso piede nella Cardiochirurgia di Borgo Trento, per non creare disagio al mio successore. Preferisco andare al Policlinico, dove trovo l’amico Roberto Corrocher, che da pensionato è ancora lì tutti i giorni a seguire gli ex allievi. Fu lui a farmi venire a Verona. Ho stampato ancora nella mente il giorno in cui Giorgio de Sandre, arrivato alla quiescenza, chiese di insegnare ancora. I docenti più giovani glielo impedirono. Gianfranco Pistolesi, una leggenda della radiologia, scattò in piedi: «Quand’è così, mi dimetto anch’io». E se ne andò.

Altri tempi.

E come dimenticare Roberto Vecchioni? Mattiniero e velocissimo, di un’abilità chirurgica inarrivabile. Quand’era a Padova, un giorno entrò in sala, vide la paziente sul tavolo operatorio e impugnò il bisturi, pronto a incidere. Se l’anestesista Giampiero Giron non si fosse precipitato ad addormentarla, l’avrebbe tagliata da sveglia.

Quanti trapianti di cuore ha eseguito?

A Padova 180. A Verona ottenni l’autorizzazione nel 1994 e smisi di tenere il conto. Se ne facevano 30-40 l’anno.

Ne sarebbe ancora capace?

Penso proprio di sì. La più complessa attività era la cardiochirurgia neonatale. Di solito, non so perché, le urgenze capitavano a Natale, Capodanno e Pasqua. Ricordo che operai un piccino il giorno stesso in cui fu partorito: aveva l’aorta e l’arteria polmonare invertite, la sindrome del «bambino blu». Bisognava intervenire subito. Da allora, a ogni Natale il padre mi manda una foto: adesso è un ragazzone di 30 anni. E ogni volta mi commuovo, perché il chirurgo non può avere un regalo più bello di questo.

Il suo collega Gino Gerosa ha creato il primo cuore bionico artificiale che rende inutili i trapianti d’organo, ma non trova chi ne finanzi la produzione. «Ho fatto il giro di fondazioni bancarie, industrie farmaceutiche, imprenditori, raccogliendo solo tante pacche sulle spalle», mi ha detto. È venuto anche da lei?

Non in Cariverona. Me ne ha parlato un sera a cena. Sono ancora in attesa che mi presenti un progetto.

Mi dica un pregio di Verona.

È intrinseco ed è merito solo del Padreterno, che l’ha posta all’incrocio tra la Pianura padana e la Valdadige.

E un difetto?

Il suo provincialismo, qui ancora più accentuato rispetto al resto del Veneto. Il che porta all’appiattimento professionale. Posso farle un caso personale, se crede.

Prego.

Mio genero Andrea Cipriani, psichiatra, ricercatore e geniaccio musicale. È organista e compositore con tre diplomi: Conservatorio di Castelfranco Veneto, Santa Cecilia a Roma e Universität für musik und darstellende Kunst di Vienna. Insegnava all’Università di Verona. La sua carriera fu intralciata, forse perché ero il rettore. Ricevette un’offerta dal dipartimento di Psichiatria dell’Università di Oxford. A malincuore, lo spronai ad accettare. Mia moglie ancora me lo rimprovera, perché così s’è dovuta separare da nostra figlia e dai nipotini. Oggi collabora con l’Oms, con l’Istituto superiore di sanità, con gli atenei di Cambridge, Bristol e York nel Regno Unito, di Ulm e Monaco di Baviera in Germania, di Nagoya e Kyoto in Giappone, di Città del Capo in Sudafrica. Ecco, sono convinto che l’Italia abbia smarrito la capacità di riconoscere il merito. Bisognerebbe abolire il valore legale del titolo di studio: di sicuro non certifica la bravura individuale.

© Riproduzione riservata

Fonte: