Difendere l’autonomia è stata sempre una delle priorità di Cuccia. Ecco perché la scalata di Del Vecchio può tradire la storia dell’istituto. Parla La Malfa nel ventennale della scomparsa del banchiere
Giorgio La Malfa
di Luca Gualtieri
Il rapporto tra Enrico Cuccia e il suo mentore Raffaele Mattioli è costellato da contrasti e riconciliazioni, a testimonianza non solo del temperamento dei due banchieri ma anche della delicata relazione professionale che c’era tra loro. La Comit di Mattioli era tra i fondatori e gli azionisti diretti di Mediobanca la quale però, sotto l’abile regia di Cuccia, reclamò sempre la propria indipendenza. Una dialettica riscontrabile in molti episodi come quando lo gnomo di via Filodrammatici rifiutò di assorbire i prestiti a breve delle banche Iri o di fare piccoli favori al bibliofilo Mattioli, quale il finanziamento della Einaudi. Oggi, nel ventennale della morte, Giorgio La Malfa ricorda quella testarda difesa dell’autonomia come uno dei lasciti più attuali di Cuccia. Anche alla luce del fatto che, proprio in questi mesi, Mediobanca è finita sotto scalata. Quello di La Malfa con Piazzetta Cuccia è un rapporto affettivo prima che professionale come dimostrano i molteplici ruoli ricoperti ancora oggi, da presidente di ReS a componente del comitato scientifico dell’archivio storico Vincenzo Maranghi.

Domanda. La Malfa, ha senso oggi per la comunità economico-finanziaria ricordare Enrico Cuccia?

Risposta. Il problema va contestualizzato. Mediobanca nacque da un’intuizione del presidente della Comit Raffaele Mattioli e di Cuccia nel corso della guerra. La loro idea era dar vita a una banca per il credito industriale al servizio della ricostruzione. Un progetto che avrebbe avuto come interlocutore un sistema imprenditoriale con una presenza significativa di grandi e grandissime imprese. C’era poi un chiaro obiettivo politico visto che Mediobanca avrebbe dovuto ricollocare l’Italia in quel quadro internazionale da cui si era esclusa durante il fascismo. In questa direzione sarebbero andate le partnership con banche estere strette negli anni quaranta e cinquanta fino a quella con la Lazard del 1956. Rispetto a questa storia, Mediobanca ha fornito un contributo straordinario.

D. Negli anni 90 però il contesto è mutato.

R. Vedo tre forti discontinuità: la fine della specializzazione bancaria con la riforma Draghi, l’apertura del mercato finanziario italiano alle grandi banche internazionali e il cambiamento profondo della struttura industriale, con la scomparsa delle grandi aziende e l’affermazione delle medie imprese. In questo senso possiamo dire che Cuccia oggi appartiene alla storia.

D. Qual è stato il più grande errore di quella Mediobanca?

R. Molte scelte di Cuccia oggi possono apparire anacronistiche. Pensiamo alla contestata predilezione per i noccioli duri. L’idea di Cuccia era che l’impresa manageriale fosse di tutti e di nessuno. Era un approccio comprensibile in quel tempo che respingeva l’idea di public company. Al contempo il banchiere nutriva un profondo pessimismo per la qualità dei gruppi dirigenti italiani. Un pessimismo che spesso lo spingeva a contrastare le grandi famiglie e a rimescolare gli assetti di controllo delle aziende. Gli va dato atto che la materia prima, cioè gli imprenditori, cominciò presto a scarseggiare ed è difficile stabilire se un banchiere avrebbe potuto fare qualcosa per evitare quel declino.

D. Oggi nella finanza italiana vede figure comparabili a quella di Cuccia?

R. Credo che, al di fuori di Mediobanca, figure del genere vadano ricercate soprattutto in Intesa Sanpaolo. Un nome su tutti quello di Carlo Messina. Non per caso entrambe le banche condividono una forte visione strategica e una decisa proiezione internazionale. Nell’ambito del suo percorso di crescita Intesa ha ereditato il patrimonio genetico della Comit di cui oggi è per certi aspetti l’erede, pur in un mutato contesto storico.

D. Eppure il polo da cui poi sarebbe nata Intesa Sanpaolo è stato a lungo un antagonista di Cuccia. Ha senso semplificare questo antagonismo parlando di finanza laica e finanza cattolica?

R. Una volta Mattioli disse che ci sono solo bravi e cattivi banchieri. Indipendentemente, aggiungerei io, dal fatto di essere laici o cattolici. Certo in Italia è esistito un mondo cattolico che, sulla scia del contributo di Giuseppe Toniolo, ha egemonizzato una piccola fetta del sistema economico con le casse mutue e le banche del territorio. Cuccia, pur avendo una sua profonda religiosità, era molto lontano dal quel mondo essendo figlio del Partito di Azione e del suo orizzonte laico e internazionale. Oggi però in Intesa queste due tradizioni si sono fuse e convivono armoniosamente, anche grazie al lavoro svolto da Bazoli e da Giuseppe Guzzetti. 


D. Lei citava Comit. Qualcuno ricorda la scomparsa del logo della Commerciale nella nuova Intesa come un motivo di rammarico per Cuccia.

R. Nella vicenda ci fu quello che Bazoli ha sempre definito un equivoco. Quando Intesa mosse sulla Comit, il Professore disse di averne parlato con Cuccia e di aver avuto da lui il via libera all’operazione. In Mediobanca però quel via libera venne inteso come condizionato al mantenimento del logo; la Commerciale avrebbe dovuto restare la banca per l’industria del nuovo gruppo. Si ritiene che la cancellazione del logo sia stata decisa su consiglio di McKinsey, consulente del board di Intesa nell’integrazione, ma probabilmente la verità non si saprà mai. Di certo dopo quei fatti ci fu un nuovo e definitivo raffreddamento dei rapporti tra Cuccia e Bazoli.

D. Generali è rimasta il gioiello della corona di Mediobanca. Quel legame azionario ha ancora un senso industriale o è un anacronistico retaggio del passato?

R. Cuccia considerava quello con Generali come un legame importante non solo per Mediobanca, ma anche per il Paese visto che la merchant era garante dell’italianità della compagnia. Ritengo che queste considerazioni siano attuali anche oggi e che sia doveroso preservare quel legame.

D. Che valutazione dà della nuova Mediobanca sotto la gestione di Alberto Nagel?

R. Mi sembra che in questi anni sia Nagel sia il presidente Renato Pagliaro siano stati molto bravi. Del resto l’azione di diversificare il business è andata in continuità con la strategia di Cuccia che fin dagli anni 50 aveva fatto di Mediobanca un istituto polifunzionale con attività nel credito al consumo, nella revisione contabile e nella gestione della ricchezza. Oltre alla qualità delle scelte e dei conti vorrei poi menzionare il merito di aver saputo difendere l’indipendenza dell’istituto anche in frangenti molto delicati. Anche questa è una strategia nata con Cuccia che, oltre all’autonomia da Roma, ci teneva sempre a rimarcare quella dalle tre Bin a partire da Comit.

D. Che idea si è fatto della scalata di Leonardo Del Vecchio?

R. Al di là dei meriti indiscussi dell’imprenditore, osservo che la strategia sembra guardare al passato. Se si è a lungo rimproverato a Mediobanca la difesa dei noccioli duri contro il mercato, mi pare che la scalata di Del Vecchio punti proprio a reintrodurre un modello proprietario che appartiene al passato. Sarà interessante vedere se Bce condividerà questa impostazione.

D. Lei citava il ruolo di Cuccia a sostegno della ricostruzione post bellica. Oggi la pandemia ci pone in una situazione simile. Servirebbe una nuova Mediobanca?

R. Non credo. Nel 1945 c’erano aziende da ricostruire o da ricreare. Oggi invece le aziende ci sono e il vero problema è semmai metterle in condizione di vendere ciò che producono. Bisogna insomma riuscire a ricreare una domanda. Un obiettivo al quale non dovrebbe lavorare tanto il sistema bancario, quanto la politica che sarà chiamata a prendere decisioni importanti in tal senso. L’Europa fornirà fondi allo Stato italiano: servono investimenti pubblici, in gran quantità e fatti con criteri severi. Non condivido invece l’idea di usarli per ridurre le imposte. Sarebbe ancora una volta un’opportunità sprecata. (riproduzione riservata)
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