La normativa di vigilanza Ue scoraggia gli investimenti in private market. Eppure le compagnie stanno via via aumentando l’esposizione. Perché i rendimenti contano e la bassa volatilità anche
di Stefania Peveraro
Anche le assicurazioni italiane si stanno avvicinando gradualmente al private capital in un momento in cui i mercati tradizionali offrono rendimenti incerti e risicati. E lo fanno sia per investire le proprie riserve tecniche sia per offrire ai clienti prodotti di investimento alternativi, a più alta performance e più bassa volatilità. Un’attività che però si scontra con la normativa di vigilanza, che per questi investimenti impone accantonamenti di capitale piuttosto onerosi, sebbene poco meno di un anno fa siano entrate in vigore modifiche alla direttiva europea Solvency II che hanno ridotto in maniera importante i pesi assegnati a questo tipo di impegni. Entro fine anno è prevista comunque un’ulteriore revisione della normativa e gli addetti ai lavori si aspettano un passo in più a favore degli alternativi.

Il tema è quindi molto caldo e non a caso ha catalizzato gran parte del dibattito tra addetti ai lavori che si è tenuto online lo scorso 23 giugno in occasione del Caffé di BeBeez su private capital e assicurazioni. I dati Aifi-PwC indicano che nel 2019 il contributo offerto dalle assicurazioni alla raccolta dei fondi di private equity e venture capital italiani è diminuito dal 15,5% al 6,7% del totale. Dietro a questa carenza di investimenti, si diceva, c’è in parte il fatto che la normativa impone un’attenta valutazione del rendimento atteso in rapporto al costo in termini di capitale di vigilanza che deve essere accantonato. Un fondo dedicato all’acquisto di fatture commerciali, per esempio, è per definizione di poco impatto in termini di Solvency 2. Alberico Potenza, managing director di Groupama Asset Management sgr, in occasione del Caffé di BeBeez, ha osservato: «L’investimento nel nostro Supply Chain Fund è assimilabile a quello in un prodotto obbligazionario a brevissimo termine, con un merito di credito elevato e un rendimento obiettivo lordo pari al tasso Euribor 3 mesi più 300 punti base (200 punti base netto, ndr), con un basso tasso di assorbimento di capitale di vigilanza richiesto dalla direttiva Ue Solvency II per questo tipo di investimenti». Proprio quel fondo lo scorso anno ha incassato la fiducia di tre compagnie assicurative, ossia Cattolica Assicurazioni, Hdi Assicurazioni (Gruppo Talanx) e Itas Mutua, oltre che del fondo pensione Previbank, a cui si è aggiunto il rinnovo dell’impegno di Groupama.

Lo stesso concetto è stato sottolineato da Andrea Milanesi, group chief investment officer Itas Assicurazioni. «In media il capitale per un investimento di questo tipo costa il 6-7% perché assorbe poco e rende Euribor più 2% ed è quindi vincente se si fa un confronto con fondo cash che ha assorbe il 3% ma ha un rendimento negativo», ha sottolineato. «Inoltre si tratta di uno strumento che offre una grande diversificazione e i crediti in portafoglio hanno duration molto breve».

Simona Zamboni, responsabile investimenti di Groupama Assicurazioni, ha ricordato che un fondo come il Supply Chain pesa molto poco in termini Solvency e che «la vera difficoltà è stata definire l’esatto ammontare di asset illiquidi in cui investire il portafoglio delle nostre quattro gestioni separate che hanno profili del passivo molto diversi tra loro. Per decidere quando e quanto assegnare a ciascuna gestione ci siamo concentrati sull’assorbimento di capitale e sul valore di indicatori di liquidità che abbiamo sviluppato ad hoc con il nostro modello interno».

Insomma, il private debt sembra l’asset preferito dalle assicurazioni, ma questo non significa che le assicurazioni non investano in capitale di rischio. Emilio Pastore, head finance and treasury di Hdi Assicurazioni, ha per esempio, affermato: «Già da tempo investiamo in private capital e addirittura in venture capital, che certo costa in termini di Solvency ma è un investimento nell’innovazione, nell’economia reale del domani». Quanto agli altri investimenti in private capital, nel portafoglio di Hdi ci sono fondi di private debt, real estate e infrastrutture.

Anche Silvana Chilelli, amministratore delegato di Eurizon Capital Real Asset sgr, ha sottolineato che in un portafoglio di investimenti di un’assicurazione deve comunque esserci spazio per l’equity non quotato. «È vero che sul fronte Solvency 2 il private debt è favorito, almeno per il nostro gruppo», ha notato Chilelli. «Intesa Vita non ha un suo modello interno e quindi per il calcolo del capitale di vigilanza da allocare a fronte degli investimenti ci affidiamo al modello standard, che appunto assegna un peso relativamente basso al private debt. E questa è un’asset class che noi consideriamo su tutte le verticali, compreso il debito real estate e il debito infrastrutturale. Tutte attività che si possono impacchettare e trasformare in prodotti di investimento per la clientela».

Tornando al tema Solvency, Massimo Di Tria, chief investment officer di Cattolica Assicurazioni, ha sottolineato che «tutti si focalizzano sull’assorbimento del capitale, ma in realtà quella è solo la parte minima del problema Solvency. Il rapporto tra fondi propri e capitale assorbito in media è del 7-10%, ma quello che conta è la volatilità dei fondi propri. Più è alta la volatilità, più quell’investimento costa. Quindi paradossalmente su questo fronte la normativa avvantaggia i private market». Quanto al futuro, «mi aspetto che il rispetto dei criteri Esg possa diventare una caratteristica cruciale per i fondi per poter risultare attraenti per le assicurazioni», ha concluso Di Tria, ricordando che «è in corso un dibattito a livello europeo sull’opportunità di riconoscere il minore rischio nel lungo periodo per gli investimenti a impatto sociale e ambientale». (riproduzione riservata)

Fonte: