di Francesco Bertolino
L’ombra delle big tech si stende anche sul risparmio gestito. Secondo il report Global Wealth 2020 di Boston Consulting Group, i colossi tecnologici statunitensi e cinesi potrebbero presto entrare in competizione con gli asset manager tradizionali per conquistare una parte dei 226 mila miliardi di dollari di ricchezza privata mondiale. «Amazon, Google e Microsoft costruiscono già l’infrastruttura portante e gli ambienti cloud per molti attori wealth-tech», nota lo studio, «alcuni, inclusi Alibaba e Amazon, offrono una serie di prodotti finanziari».

L’ingresso nel risparmio gestito delle big tech, quindi, è più una questione di volontà che di competenze o capacità di raggiungere i clienti. Presto, avverte Bcg, «possenza finanziaria e dimensioni potrebbero consentire loro di risalire la piramide e fornire servizi di wealth management agli individui» con un patrimonio compreso fra i 250 mila dollari e 20 milioni di dollari (affluent e fascia bassa degli High-Net-Worth Individuals). Il passaggio è già compiuto in Cina, dove da tempo le maggiori piattaforme integrano app per la gestione del risparmio, ma non dovrebbe tardare ad avvenire anche negli Stati Uniti, considerata la pervasività delle tecnologie e la propensione della clientela ad adottarle. La penetrazione potrebbe rivelarsi invece più difficile in Europa a causa della frammentazione del mercato, della minor inclinazione digitale dei risparmiatori e dello scrutinio dei regolatori. La Commissione europea sta infatti cercando di arginare lo strapotere delle big tech e potrebbe non gradire la loro invadenza nel wealth management. Prima o poi, comunque, l’industria del risparmio gestito dovrà abbracciare la trasformazione digitale. Non solo per venire incontro alle richieste di trasparenza nei costi e di personalizzazione nei servizi avanzate dai clienti. Ma soprattutto per esigenze di efficienza e di profitto che deve affrontare costi e oneri regolatori crescenti.

Gli utili complessivi dei wealth manager sono infatti al palo da circa un decennio: stando ai calcoli di Bcg, erano 130 miliardi di dollari nel 2007, sono stati 135 miliardi nel 2019. Il dato è ancor più preccupante se si considera che nello stesso arco di tempo la ricchezza privata mondiale è quasi raddoppiata, passando da 126 mila a 226 mila miliardi di dollari grazie soprattutto al boom di Asia e Stati Uniti. Meno esaltanti i risultati dell’Europa e dell’Italia dove il tasso di crescita d fra il 2014 e il 2019 è stato dell’1,7% (per un totale di 5.300 miliardi).

La crisi pandemica potrebbe portare a una contrazione della ricchezza privata, che Bcg stima fra i 6 e i 16mila miliardi a seconda di durata e gravità della recessione. La pressione sui gestori tradizionali è destinata perciò a salire, così come la spinta all’aggregazione fra le maggiori società di settore e alla specializzazione delle piccole boutique che dovranno focalizzarsi sui patrimoni più alti. Meglio distribuita geograficamente, del resto, la ricchezza privata tende a concentrarsi sempre più alla cima della piramide.

Secondo Bcg, il 56% dei 226mila miliardi è in mano a milionari (44%) e miliardari (7%), in aumento rispetto al 45% del 2009. Negli ultimi dieci anni, invece, la porzione detenuta dal retail è scesa dal 40 al 34%. Da questo punto di vista, l’Italia rappresenta un’eccezione: nel 2019 «solo» il 41% della ricchezza privata apparteneva ai milionari, mentre la quota del retail si attestava al 47%. (riproduzione riservata)
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