La vicenda del ddl concorrenza sarebbe comica, se non facesse piangere per la scarsa credibilità del legislatore e per il danno alle tasche dei cittadini. Giovedì, nelle Commissioni riunite Finanze e Attività produttive, sono stati approvati quattro emendamenti che obbligano il testo a un ulteriore, incerto, instabile passaggio al Senato, dove la maggioranza è risicata e le polemiche preelettorali stanno già montando. Da Palazzo Chigi, nel febbraio 2015, Renzi aveva inviato in parlamento un provvedimento omnibus che, unendo tanti, troppi temi tutti insieme (assicurazioni, energia, professionisti, farmacie, taxi), era riuscito nel pur complicato intento di coalizzare tutti gli oppositori.
Da allora, tra veti, compromessi e stop and go, sono passati 850 giorni di travaglio parlamentare, compresi i sei mesi antecedenti al referendum costituzionale in cui la legge era stata congelata in chiave elettorale. Poi, dopo le dimissioni seguite alla sconfitta, Renzi aveva lasciato la paternità della legge a Carlo Calenda, che se ne era lamentato («non sono stato fortunato con questa legge»), ma che aveva comunque imposto e ottenuto la fiducia al Senato pur di concluderne la gestazione, nella speranza si potesse poi andare oltre questa prima legge annuale, attesa incredibilmente dal 2009. Anche perché qualcosa di buono comunque c’era. In ogni caso molti dei temi più delicati (taxi, Flixbus, Airbnb, Booking, sulle tabelle per il risarcimento del danno non patrimoniale) sono stati dirottati in altri provvedimenti, in modo da non bloccare il tutto.
Ma adesso la maggioranza parlamentare, in palese lotta con il governo, ha imposto queste quattro modifiche, di cui tre di dettaglio. Si stabilisce che, al termine del regime di maggior tutela per il sistema elettrico (1 luglio 2019), non sia possibile mettere in asta il servizio di fornitura per i clienti privati che non hanno ancora scelto il fornitore. Viene poi soppresso l’obbligo per chi fa telemarketing di dire subito per chi si lavora e lo scopo della chiamata. Poi è stato stabilito che nelle società odontoiatriche tutti coloro che esercitano l’attività devono aver conseguito un titolo abilitante. Tutti interventi che, ovviamente, potevano essere introdotti in altre leggi, in altri decreti attuativi o ministeriali, senza bisogno di mettere a rischio la travagliata legge sulla concorrenza. Tra l’altro, dell’ipotesi di inserire queste modifiche altrove, aggirando il problema, si era parlato già durante il precedente passaggio a Palazzo Madama. Ma la vera sorpresa è sulle assicurazioni.
Nel testo si prevedeva per le polizze del ramo danni quanto aveva stabilito Monti per la rc auto: abolizione del tacito rinnovo. Nel settore automobilistico, secondo i dati Ivass, anche se il costo medio delle polizze in Italia resta superiore alla media europea, dal 2011 il divario si è quasi dimezzato (dai 234 euro in più del 2011 ai 145 attuali), con i prezzi che continuano a scendere (-7,5% del 2015). Questo perché la percentuale degli assicurati che cambia compagnia sta salendo dall’8% degli anni passati al circa 25% attuale, in linea con la media europea. Tra l’altro, in un mercato di circa 143 miliardi di euro di premi assicurativi, solo il 10% ha ancora in vigenza questa clausola. Ed è la parte più statica e meno in crescita del mercato. Ora, tornare indietro su questo, oltre a essere una dimostrazione di incoerenza rispetto a quanto deciso solo pochi mesi fa, equivale a mantenere ingessato il mercato. Certo, le compagnie ci guadagnano, poiché possono mantenere la posizione dominante in modo supino, senza dover mettere in campo politiche attive, ma ci perdono i cittadini.
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