di Lucio Sironi
La goccia di troppo che ha fatto traboccare il vaso è stato il report che ieri Mediobanca ha dedicato all’industria italiana del risparmio gestito, un classico confronto tra le poche società che rappresentano il settore a Piazza Affari. Una comparazione al termine della quale – a dire il vero – da almeno un paio d’anni il gruppo Azimut raramente riesce a cogliere l’apprezzamento degli analisti. In quello di ieri, in particolare, lo specialista di Mediobanca ha esaminato 113 fondi che rappresentano circa un terzo delle masse gestite dalle quotate del comparto. Tra le altre cose lo studio calcola che l’anno scorso la media ponderata delle performance lorde sia stata di 756bp (7,65%), che per la metà sarebbe andata in commissioni alle reti. In media il ter (total expense ratio) sulle fee ordinarie è stato pari a 300 bps.

Lo studio conclude che Azimut e Banca Mediolanum sono le società più esposte, in particolare per un’eccessiva dipendenza dai fondi comuni forniti dalla casa. «Uno studio che secondo noi parte da numeri che non sono i più significativi se si vuol fare un confronto approfondito», accusa il presidente di Azimut , Pietro Giuliani, «e che curiosamente ignora nelle conclusioni che abbiamo generato una performance netta e lorda superiore ai concorrenti e che l’incidenza delle commissioni rapportata alla performance generata è la più bassa tra quelle esaminate (grafico in pagina, ndr). L’anno scorso la performance media ponderata dei fondi Azimut è stata del 3,6%, più alta del 2% rispetto alla media dell’industria. Sono stupito che non si tenga conto di questo aspetto, non marginale, che caratterizza i nostri fondi da 25 anni e fa la differenza rispetto ai concorrenti».

Giuliani fa presente che non è la prima volta che gli analisti prendono di mira la società che presiede. In passato si prese spunto da un trimestre particolarmente poco brillante, il primo del 2016, per dedurre una serie di criticità di Azimut (dipendenza dalle commissioni d’incentivo, costi elevati difficili da sostenere), che a medio termine avrebbero spiazzato il suo modello di business, «che invece continua a farci guadagnare più dei concorrenti, anche se in borsa valiamo costantemente di meno, complice un’assidua attività speculativa che fa di Azimut da oltre un anno uno dei titoli più venduti allo scoperto dell’intero listino italiano».

Quanto basta per spingere Giuliani a precisare alcuni punti, prendendo anche ispirazione da affermazioni raccolte tra i concorrenti che indicherebbero la società come probabile preda di gruppi finanziari più grandi e intenzionati a riposizionare il loro business proprio sul risparmio gestito. «Colgo l’occasione per ribadire che Azimut non è in vendita», precisa Giuliani, «quindi se il disegno di qualcuno è di contenere il prezzo dell’azione per poter comprare la società a sconto mettiamo subito in chiaro che per noi il titolo non vale meno di 50 euro e siamo convinti che entro la fine del piano industriale in corso, quindi tra due anni e mezzo al massimo, Azimut in borsa avrà raggiunto quel valore». Vale la pena precisare che Azimut è almeno teoricamente scalabile. Il primo socio è il patto di sindacato che comprende management, dipendenti e consulenti della rete, a cui fa capo circa il 15% e che cresce al ritmo dell’1% all’anno (ci sono anche azioni proprie per oltre il 9% del capitale, con possibilità avallata dall’assemblea di salire fino a quota 20%). «Il nostro morale rimane alto», conclude il presidente, «siamo convinti del valore della società e di quanto ancora può crescere in Italia e all’estero».

Ieri il gruppo guidato da Giuliani e dall’ad Sergio Albarelli ha reso nota la raccolta effettuata nel mese di maggio, positiva per 411 milioni di euro, portando il totale da inizio anno a 2,9 miliardi. Il dato ha beneficiato del consolidamento di Mtp, l’ultima società di consulenza finanziaria in Australia entrata a far parte di Az Nga. Al netto del consolidamento delle sue masse il saldo mensile di Azimut è positivo per 270 milioni, mentre il totale delle masse comprensive del risparmio amministrato si attesta a fine maggio a 46,8 miliardi, di cui 38 fanno riferimento alle masse gestite. «Il dato di maggio è l’esito di un’attività volta a migliorare la qualità degli asset in portafoglio», spiega il ceo Albarelli, «che ha visto anche la riallocazione di numerose posizioni in pronti contro termine verso soluzioni più efficienti. Si accusa il disinvestimento di alcuni clienti istituzionali a bassa marginalità, ma la crescita è stata sostenuta anche dalle attività all’estero, che hanno raggiunto oltre il 20% delle masse totali in gestione». (riproduzione riservata)
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