Enti previdenziali e assicurazioni fanno ancora molta fatica a investire nell’economia reale in Italia. L’anno scorso le compagnie assicurative hanno contribuito soltanto per l’11,7% al totale della raccolta, mentre fondi pensione e casse di previdenza si sono spinti siano al 18,6%. La fetta più grossa della raccolta dei fondi di private equity arriva dalle banche, mentre il resto arriva da family office, fondazioni e privati. E se sul fronte degli enti previdenziali si rileva un graduale aumento dell’impegno sull’asset class, anche solo a opera delle Casse di previdenza, per le assicurazioni non è possibile individuare un trend. In ogni caso, stiamo parlando comunque di oltre 3 miliardi di euro di investimenti in 6 anni su un totale di poco meno di 13 miliardi.
Si tratta però di dati che stridono rispetto a quelli del private equity internazionale, dove fondi pensione e assicurazioni fanno invece la parte del leone tra gli investitori, accanto ai fondi di fondi. I dati di Tower Watson e Boston Consulting Group relativi al 2014 indicano che a livello mondiale gli investitori hanno puntato oltre 7.100 miliardi di dollari sugli asset alternativi, in particolare su private equity ed hedge fund. E gli investitori più agguerriti in fondi di private equity sono proprio i fondi pensione con ben 1.400 miliardi di dollari investiti.

D’altra parte ora la ricerca di rendimento porterà giocoforza anche più fondi pensione e assicurazioni italiane a investire in asset alternativi. L’anno scorso già le cose non sono andate benissimo. Certo, Covip nella relazione annuale presentata lo scorso giovedì 9 giugno ha sottolineato che i rendimenti medi dei fondi pensione hanno battuto quello del Tfr, ma è una magra consolazione visto che quest’ultimo, al netto delle tasse, si è rivalutato solo dell’1,2%, il rendimento più basso dal ‘99 a oggi, mentre i rendimenti medi dei fondi negoziali sono al 2,7% e al 3% per i fondi aperti.
Alla fine del 2015 le attività detenute dai fondi pensione ammontavano a circa 107 miliardi di euro. Il 62,2% delle attività era investita in titoli di debito, con il 78% in Bot e Btp; per il resto ci sono azioni e un 12,8% di fondi. Quelli non armonizzati ammontavano a 12,8 miliardi di euro e di questi la gran parte (77,3 %) è costituita da fondi immobiliari (9,9 miliardi, pari al 13,7% delle attività totali). I fondi di private equity, invece, pesavano solo per 834 milioni cioè l’1,2% delle attività totali.

«Un problema è il fatto che fondi pensione e Casse di previdenza spesso non hanno le competenze interne per selezionare i fondi alternativi nei quali investire e quindi si affidano ad advisor esterni, i quali però in generale, per non rischiare, consigliano di investire in fondi esteri, che hanno evidentemente più track record», spiega a MF-Milano Finanza Gabriele Cappellini, amministratore delegato di Fondo Italiano d’Investimento sgr. Secondo quanto risulta a MF-Milano Finanza gli advisor più accreditati su questo mercato sono Prometeia, Tower Watson, MangustaRisk, Stepstone, Mercer e Cambridge Associates. Cappellini aggiunge: «Così, però, non si crea un volano a favore della crescita delle aziende italiane. In fondo basterebbe emulare nelle scelte quello che ha fatto il Fondo Italiano d’Investimento. I nostri fondi di fondi di private equity, venture capital e private debt hanno investito a seguito di due diligence approfondite sui vari team di gestione, perché quindi non coinvestire insieme al Fondo italiano?».
E continua: «Altrimenti va a finire che il fondo in questione non riesce a chiudere la raccolta, pur avendo la nostra disponibilità a investire. Noi chiediamo quindi a fondi, casse di previdenza e assicurazioni di investire nei nostri fondi e di coinvestire insieme a noi su certi veicoli specifici. Il Fondo italiano si propone insomma come capo-fila e advisor. Quanto dico vale a maggior ragione per il venture capital. In questo settore abbiamo un accordo preciso con il Fondo Europeo di Investimento. In molti casi il Fei ha coinvestito con noi e quindi c’è in sostanza un doppio avallo all’investimento».
Infine un altro tema è quello delle commissioni di gestione. «Molti investitori si lamentano delle commissioni chieste dai fondi italiani, ma si devono rendere conto del fatto che per avere un bravo gestore bisogna pagarlo. Le commissioni in media nel periodo di investimento stanno in un range compreso tra l’1,80 e il 2,30% degli impegni raccolti per un fondo di private equity o per un fondo di venture capital, ed è ovvio che più si sta sulla parte alta della forchetta e più si possono attrarre in Italia persone capaci».

Sulle commissioni torna anche Maurizio Atzori, consigliere di amministrazione di Assietta Private Equity sgr, responsabile del fundraising: «In confronto alle gestioni tradizionali i costi del private equity sono evidentemente alti perché si parla di una media di 2% di commissioni, ma tutto va sempre confrontato con quelli che sono i rendimenti attesi, per il private equity ovviamente molto più elevati rispetto ad altre asset class». Il grafico in pagina mostra il capitale restituito agli investitori rispetto a quello investito in varie asset class: a oggi il private equity ha fruttato a chi vi ha investito nel 2010 circa 2,3 volte l’investimento o il 13.15% all’anno, contro le 1,5 volte del private debt e del real estate (6-8%) e le 1.25 volte delle infrastrutture (3-5%).Certo, però, c’è la questione della prevedibilità dei flussi, che nel private equity e venture capital non c’è. Mentre questa è una caratteristica del private debt.

Andrea Battista, amministratore delegato di Eurovita, compagnia di assicurazioni controllata peraltro proprio da un private equity (JC Flowers), riferisce a MF Milano Finanza che «il private debt sembra fatto apposta per le compagnie assicurative perché genera flussi di cassa di lungo periodo che sono perfettamente coerenti con quelli delle assicurazioni in termini di duration e prevedibilità, caratteristica che invece non ha il private equity». E aggiunge: «Se è vero che gli investimenti in private debt sono illiquidi, è anche vero che anche il nostro passivo è illiquido, perché, a differenza di quanto accade alle banche, se un nostro sottoscrittore ha necessità di liquidità, cerca di reperirla in altro modo piuttosto che riscattare una polizza prima del previsto». Così l’elenco dei fondi in cui Eurovita ha investito è ricco: «Abbiamo investito nei fondi di private debt di Muzinich, RiverRock, Tenax, Ver Capital, Antares, Anthilia ed Equita».
D’altra parte, prosegue Battista, «con questo livello di compressione dei tassi di interesse, un rendimento netto del 4-6% è assolutamente interessante e anche Solvency II tratta bene il debito». Quanto alla selezione dei fondi, conclude Battista, «abbiamo un team interno che se ne occupa e che alla fine della selezione si confronta con i risultati delle due diligence condotte dal Fondo Italiano. Per noi è una sorta di doppio controllo».
In effetti che le assicurazioni stiano puntanto sui fondi di private debt è evidente. Un esempio è il fondo Bond Impresa Territorio di Anthilia Capital Partners sgr, che ha raggiunto quota 194 milioni di euro ed è quindi prossimo al closing definitivo della raccolta che ha target 200 milioni (oltre i 30 milioni del fondo parallelo sottoscritti dal Fondo Italiano d’Investimento). Sul totale raccolto a oggi il 55% delle sottoscrizioni è arrivato da banche commerciali per il 55%, il 13% dal Fondo Italiano e il 12% da da assicurazioni (Fireuram Vita, Intesa Vita, Eurovita, Italiana Assicurazioni, Reale Mutua, Bancassurance Popolari), infine c’è un 8% sottoscritto da Cassa Forense ed Enpam.

«Il segmento degli investimenti alternativi continuerà a crescere con forza sia in Italia che nel mondo alimentato dal contesto di mercato e da trend strutturali», aveva commentato qualche settimana fa Maria Bianca Farina, presidente di Ania, in occasione del suo intervento a Milano all’Investor day di Quadrivio Capital Partners sgr. Farina è stata molto chiara: « Le compagnie di assicurazione giocheranno un ruolo sempre più importante come investitori in questo segmento di mercato. Gli investimenti alternativi consentiranno alle compagnie di veicolare il risparmio degli italiani verso il supporto all’economia reale, con benefici per l’intero sistema Paese. Gli investimenti in asset alternativi possono essere un volano per il sistema delle imprese, anche se è ovvio che l’appetibilità di questi investimenti per le compagnie deve essere valutata tenendo conto anche dell’assorbimento di capitale».
E a proposito di Solvency 2, Atzori spiega: «Le compagnie assicurative investono in genere in private debt, infrastrutture, energie rinnovabili e cartolarizzazioni. Investono molto poco in private equity e quasi nulla in venture capital perché, dicono, la normativa di vigilanza internazionale di Solvency 2 è punitiva per gli investimenti in equity in genere e per il non quotato in modo particolare. D’altra parte all’estero le compagnie investono comunque e anche per loro vale Solvency 2». Quanto a Casse previdenziali e fondi pensione preesistenti, continua Atzori, «investono in tutte le asset class alternative, anche grazie al credito d’imposta. Tuttavia gli advisor stranieri li spingono a guardare fuori Italia». Il problema vero, invece, sono i fondi negoziali.
Atzori ha una cultura importante sul tema, perché per la sua raccolta ne ha contattati molti e alla fine la costanza è stata premiata, visto che proprio Assietta III è stato il primo fondo di private equity privato nel quale un fondo negoziale italiano abbia investito. Solidarietà Veneto, fondo pensione territoriale della Regione Veneto, è stato infatti il primo, e per il momento ancora l’unico, fondo pensione contrattuale ad avere avviato un programma di investimenti in private equity in Italia. Solidarietà veneto ha investito 7 milioni nel Fondo Sviluppo pmi, gestito da Friulia Veneto Sviluppo sgr, 7 milioni nel fondo Ape III di Assietta e infine 10 milioni nel fondo Alcedo IV di Alcedo sgr. «Con l’eccezione dei fondi regionali ed Eurofer (fondo in real estate), i fondi negoziali non investono ancora in private equity per una serie di ragioni. Molti devono ancora adeguare gli statuti per fare gestioni dirette, altri sono semplicemente viziati, perché hanno acquistato in misura massiccia dei Btp quando lo spread era superiore ai 500 punti base nel 2011 e quindi sono abituati a grossi guadagni. Non si sono ancora davvero resi conto che il mondo è cambiato. C’è poi la questione della mancanza di una cedola periodica quando si parla di investimenti in private equity e in venture capital, mentre il problema non c’è nel caso di minibond, investimenti in infrastrutture e in progetti di energie rinnovabili. Mancano competenze specifiche nei team di gestione per selezionare e seguire l’investimento e l’impatto della cosiddetta J-curve è psicologicamente pesante».
In effetti, deve essere complicato per un presidente avviare una strategia di investimento che si sa che per i primi anni porterà soltanto perdite, mentre i guadagni arriveranno quando in carica ci sarà qualcun altro. Nei fondi negoziali, infatti, il Consiglio di amministrazione è rinnovato in genere ogni 3 anni e la presidenza è scelta alternativamente tra sindacati e datori di lavoro. Per contro, il presidente in scadenza può essere riconfermato nel caso delle Casse di previdenza. Cntinua Aztori: «spesso mi è stato detto che se un fondo pensione investe in private equity, la quota del fondo si deprezza in presenza di perdite e quindi se qualcuno riscatta la sua quota in quel momento cristallizza la perdita. Ma io rispondo che non è necessario che tutti i comparti del fondo vengano investiti in private equity. È evidente che si tratta di un asset class più adatta a gestioni dinamiche e più opportune per giovani, che hanno tutto il tempo di recupere l’impatto della J curve sulle quote e di godere dei guadagni di lungo periodo». (riproduzione riservata)
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