di Anna Messia
Che ci sia urgente bisogno di rivedere il sistema sanitario italiano è nei numeri. Secondo l’ultima ricerca del Censis, presentata in occasione del Welfare Day organizzato a Roma da Rbm Assicurazione Salute, il numero delle persone che non possono permettersi cure mediche a causa di difficoltà economiche è lievitato negli ultimi tre anni. Nel 2012 gli italiani costretti a rinunciare o a rinviare prestazioni sanitarie erano 9 milioni e l’anno scorso sono saliti a 11 milioni. E nel frattempo è aumentata la spesa da parte di chi, più abbiente, può scegliere di curarsi privatamente per evitare le lunghe attese per le cure offerte dal sistema sanitario nazionale. Nel 2013 le spese sanitarie private per visite e analisi valevano complessivamente 30,6 miliardi, saliti l’anno scorso a 34,6 miliardi per una spesa media annua pro capite di 569 euro, 80 euro in più di tre anni fa. Tale esborso solo in piccola parte (4,5 miliardi) viene canalizzato verso forme di sanità integrativa, ovvero fondi sanitari e polizze. Il resto, poco più di 30 miliardi l’anno, viene speso in ordine sparso dai singoli cittadini, per di più alimentando in diversi casi i pagamenti in nero, che sarebbero pari a oltre 10 miliardi. In quadro insomma è a tinte fosche e sembra destinato a peggiorare sotto la scure dei tagli imposti allo Stato per contenere spesa pubblica.

Come se ne esce? Le proposte del settore per tentare di migliorare la situazione sono numerose. Come quella di Rbm Assicurazione Salute, compagnia assicurativa leader in Italia nel comparto delle polizze e dei fondi sanitari, che nei giorni scorsi ha chiesto al governo una collaborazione pubblico-privato per attuare un secondo pilastro sanitario, aperto a tutti i cittadini, destinato ad assicurare la spesa sanitaria out of the pocket . O come quella arrivata dagli attuari, riuniti il 16 giugno a Bologna per l’XI congresso nazionale, che hanno già a suo tempo proposto al ministro del Lavoro Giuliano Poletti l’apertura di un tavolo tecnico per affrontare a 360° il tema del welfare. «Perché la questione delle pensioni integrative non può essere disgiunta dal tema della sanità, dell’assistenza e del lavoro», dice il presidente del consiglio nazionale attuari Giampaolo Crenca. «Ci sono per esempio casse previdenziali che stanno introducendo coperture di long term care (che garantiscono assistenza in caso di non autosufficienza, ndr), che ovviamente sono molto utili e importanti, ma ci sarebbe bisogno di muoversi in maniera coordinata, per garantire a tutti sanità e prestazioni previdenziali adeguate». Il tema centrale sembra essere proprio questo. Se si analizza il profilo di chi ha già un fondo sanitario o una polizza, ovvero poco più di 11 milioni di persone su 59 milioni di italiani, emerge che si tratta in grandissima parte di lavoratori dipendenti, che hanno un tasso di adesione del 57%. Non pochi, quindi, ma la percentuale scende al 14% per i 22,7 milioni di lavoratori autonomi e si abbassa inesorabilmente all’1% per coloro che non hanno un lavoro, come le casalinghe. «La nostra proposta è di incentivare i fondi sanitari aperti, nei quali tutti cittadini possano canalizzare la loro attuale spesa sanitaria privata, risparmiando e pagando meno per le stesse prestazioni sanitarie, grazie al potere contrattuale del fondo nei confronti delle strutture private», suggerisce Marco Vecchietti, consigliere delegato di Rbm assicurazione Salute. In questo modo si «reimmetterebbero nel sistema almeno 15 miliardi di spesa sanitaria privata e si potrebbe garantire un recupero di risorse per lo Stato, reinvestibili nel sistema sanitario nazionale o per incentivare fondi e polizze», aggiunge. Una simile novità avrebbe però bisogno di un intervento legislativo, visto che attualmente i lavoratori autonomi e i cittadini che volessero aderire a un fondo sanitario sono penalizzati fiscalmente. Sia Rbm sia gli attuari chiedono al governo di modificare l’articolo 10 del Testo Unico delle Imposte sul Reddito, che per i fondi sanitari aperti non prevede la deducibilità fiscale annua di 3615,20 euro.

Il diverso trattamento fiscale fa sì che nella sanità integrativa italiana si sia composto una sorta di patchwork, come evidenziato in un position paper dell’Ania. Ci sono i cosiddetti fondi doc, integrativi del sistema sanitario nazionale, che nascono da contratti o accordi collettivi e hanno il divieto di adottare strategie di selezione del rischio. Si chiamano integrativi perché disegnati per potenziare l’erogazione di trattamenti e prestazioni non comprese nei livelli uniformi e essenziali di assistenza (i cosiddetti Lea), e hanno la deducibilità dei contributi versati entro il tetto di 3.615,20 euro. A questi si aggiungono i fondi non doc, ovvero enti, casse e società di mutuo soccorso con fini esclusivamente assistenziali. Nelle intenzioni del legislatore dovevano essere una categoria residuale, ma visto il bisogno crescente di sanità privata dei cittadini, sono diventati preponderanti. I fondi non doc hanno piena libertà di azione, e le iscrizioni possono essere collettive o individuali. Per usufruire però delle stesse facilitazioni fiscali dei doc, devono dimostrare di destinare almeno il 20% delle prestazioni a cure odontoiatriche o a coperture socio sanitarie e socio assistenziali. Ma in ogni caso i lavoratori autonomi o i soggetti che si dovessero iscrivere individualmente per propria scelta sarebbero fuori dai benefici fiscali. Una posizione che esclude proprio quelle persone che, in base ai dati Censis, più degli altri avrebbero bisogno di una sanità integrativa.

Anche perché tertium non datur. Anche le polizze assicurative salute individuali, che possono essere sottoscritte da tutti sono fiscalmente sfavorite. L’unica eccezione è rappresentata dai contratti di copertura Ltc, che beneficiano di detrazioni d’imposta del 19% dei relativi premi fino a 1.291,14 euro. Ma nelle polizze sanitarie, in generale, i premi non sono deducibili e sono anche assogettati all’imposta del 2,5%. «Tale sistema fiscale frena lo sviluppo della sanità integrativa di chi non ha un contratto di lavoro dipendente proprio nel momento in cui il sistema nazionale riduce le sue prestazioni», dice Vecchietti aggiungendo che «in un contesto di mercato di secondo pilastro sanitario diffuso anche noi come imprese assicurative saremo disponibili a rinunciare a qualsiasi forma di selezione del rischio, aprendo le polizze alle fasce della popolazione più a rischio o più anziane. A patto però di un allineamento dal punto di vista fiscale». Non solo. A fronte di una spinta alle adesioni gli operatori sono pronti a maggiori controlli. «Sarebbe necessario riorganizzare l’anagrafe dei fondi, prevedendo adeguate forme di pubblicità e trasparenza dell’albo dei fondi sanitari», suggerisce Crenca, con l’obiettivo di «tutelare gli iscritti e gli assistiti da eventuali abusi». In altre parole, sarebbe arrivato il momento di allargare a tutti gli strumenti che finora sono di fatto riservati ai dipendenti, consentendo però un maggiore controllo di qualità sui fondi sanitari «che consenta di concentrare gli incentivi premianti sulle realtà che effettivamente realizzano coperture efficaci», conclude Crenca. Chi dovrebbe controllare? A proporsi è stata la Covip, la commissione di vigilanza sui fondi pensione guidata da Mario Padula, che nella recente relazione 2015 ha sottolineato la necessità di un intervento regolatore in un settore caratterizzato da vari e numerosi soggetti e che, pure tra difficoltà, è arrivato a gestire 4 miliardi di euro di risorse. (riproduzione riservata)
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