La pensione fa paura. E tanta: calcolata con il metodo contributivo, valutando cioè i soli versamenti durante l’attività lavorativa, può rivelarsi, infatti, drammaticamente «leggera», irrimediabilmente insufficiente per riuscire a condurre un’esistenza dignitosa. Ma, al di là del dibattito pubblico sul tema, alimentato anche dalla diffusione da parte dell’Inps, a partire dal 1° maggio scorso, della cosiddetta «busta arancione» (la possibilità di simulare online, attraverso il sito internet dell’Istituto di previdenza sociale, l’importo dell’assegno), riuscire a erogare prestazioni congrue per mantenersi è da tempo un punto irrinunciabile dell’azione dell’Eppi, l’Ente dei periti industriali e dei periti industriali laureati. Una specifica ricetta per rendere più appropriati possibili i trattamenti la Cassa presieduta da Valerio Bignami la ribadisce ad ogni occasione buona: occorre procedere alla rivalutazione dei montanti previdenziali degli iscritti. E il piano di riforma per raggiungere tale traguardo (propugnato non soltanto dall’Eppi, bensì anche da altri istituti previdenziali dei professionisti costituitisi con il decreto legislativo 103/1996) si fonda ponendo il tasso di variazione del pil nominale quale parametro minimo di rivalutazione dei montanti, principio questo, del resto, adottato dal Consiglio di stato che ha detto la sua nella nota controversia tra Enpaia e ministeri del lavoro e dell’economia. Il concetto che deriva da tale pronunciamento, a giudizio dell’Eppi, è molto semplice: deve essere assicurato un rendimento minimo (e, quindi, ancora una volta, evitata qualsiasi forma di svalutazione) fatta salva la possibilità per gli enti che hanno saputo gestire bene le proprie risorse di assicurare un rendimento maggiormente elevato. E, pertanto, sollevato (con un enorme clamore mediatico) nelle settimane passate il problema dell’adeguatezza pensionistica, in virtù della sentenza della Corte costituzionale (n. 70 del 30 aprile scorso) che ha bocciato il comma 25 dell’art. 24 del decreto legge 201/2011 (la manovra «Salva-Italia» del governo di Mario Monti), che bloccava il riconoscimento della perequazione per gli anni 2012 e 2013, e del decreto con il quale il governo è poi corso ai ripari (65/2015), appare assordante il silenzio intorno a una norma, contenuta nel medesimo provvedimento di palazzo Chigi che però non è, come dovrebbe, sotto le luci della ribalta. Difatti, mentre si dibatte di «diritti quesiti» dei pensionati, ci si dimentica che la pensione si costruisce anno dopo anno, non soltanto col versamento dei contributi, ma pure grazie alla rivalutazione che lo stato, così come tutti gli enti legati a filo doppio alle regole del metodo contributivo, quale è l’Eppi, deve garantire sugli stessi. E nell’oblio è finito anche il fatto che per la prima volta dall’introduzione della legge di riforma del sistema previdenziale il tasso di rivalutazione dei montanti contributivi, ancorato all’andamento del paese Italia, è stato negativo: questo avrebbe comportato un impoverimento delle risorse accumulate per garantirsi un futuro adeguato. Questione spinosa, sollevata a novembre dello scorso anno dall’allora commissario straordinario dell’Inps Tiziano Treu, che riteneva la svalutazione dei montanti contraria allo spirito della disciplina, propugnando un meccanismo di neutralizzazione; considerando, cioè, la brusca frenata dell’economia italiana, valutato che il termometro di questo rallentamento, il pil nominale, segnava il meno zero, il ragionamento sviluppato era: «Non ti riconosco interessi, ma neppure ti tolgo soldi». E quale strada hanno, invece, imboccato le Istituzioni all’indomani della sentenza della Consulta? È presto detto: l’art. 5 del decreto 65/2015 ha previsto che nell’ipotesi in cui il tasso sia negativo non si dovranno svalutare i montanti, salvo poi recuperare sulle rivalutazioni successive quanto non sottratto. Scelta priva di coraggio, quella sostenuta dall’esecutivo: sarebbe stato opportuno, infatti, fermarsi al sancire che il tasso non può mai esser negativo. Non c’è più tempo da perdere: è arrivato, è l’opinione dell’Eppi, il momento di immaginare ed attuare una riforma strutturale del sistema pensionistico italiano, in grado di conciliare i diversi interessi in campo: la tenuta dei conti dello stato sarebbe soltanto apparente, perché è (purtroppo) facile intuire come il sistema contributivo genererà una platea di pensionati indigenti che, come in un circolo vizioso, graveranno sul bilancio statale. E il loro «carico» non calerà sul capitolo previdenziale, ma sul fronte assistenziale.