Le case farmaceutiche negli ultimi anni hanno fatto passi da gigante per prevenire e contrastare malattie degenerative oppure i tumori Tuttavia le nuove cure costano e i sistemi sanitari rischiano di collassare

di Maria Elena Zanini

La data che segna il punto dei svolta nella ricerca contro l’Alzheimer potrebbe essere il 20 marzo 2015 giorno in cui Jeffry Seigny, direttore medico della Biogen, una tra le più importanti società farmaceutiche del mondo, nel corso della 12ª Conferenza internazionale sulla malattia di Alzheimer e di Parkinson e sui disturbi neurologici correlati, ha presentato a una platea di scienziati, ricercatori e investitori, il farmaco Aducanumab che, seppure in fase sperimentale, ha dimostrato di rallentare sensibilmente il declino cognitivo nei soggetti affetti da Alzheimer.

L’entusiasmo della platea (investitori in primis) è stato notevole, ma come ricorda Fortune, e come affermano anche alcuni dei ricercatori presenti alla conferenza, occorre mantenere una certa cautela: «è pur sempre Alzheimer» è il mantra ripetuto negli ambienti scientifici.

Il perché è presto detto. Tra i 244 farmaci che le aziende farmaceutiche hanno testato contro la malattia in fase clinica tra il 2002 e il 2012, stando a uno studio del 2014 della Cleveland Clinic (tra i migliori centri ospedalieri degli Stati Uniti e del mondo), solo uno ha ricevuto il via libera della Fda (Food and Drug Administration, l’agenzia Usa preposta alla regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici). Quindi il tasso di successo della ricerca scientifica contro l’Alzheimer è un minuscolo 0,4% rispetto al 19% dei farmaci contro il cancro.

In tutto, solo cinque farmaci contro l’Alzheimer sono stati approvati e di questi solo quattro sono stati messi sul mercato. Va però precisato che tali farmaci trattano i sintomi della malattia, come la perdita di memoria, non la sindrome stessa.

Ma non è scontato che il composto Aducanumab di Biogen sia la soluzione. Certo, il trattamento ha portato a riduzioni dell’amiloide cerebrale, un tipo di placca che si ritiene svolga un ruolo chiave nello sviluppo dei sintomi dell’Alzheimer, ma lo studio di Biogen (che ha coinvolto solo 166 pazienti) è ancora in una fase preliminare il cui scopo è quello di trovare una dose adeguata del farmaco per valutarne la sicurezza. Troppo presto per trarre conclusioni significative. Una strada simile poi avevano cominciato a intraprenderla, senza successo, anche Eli Lilly, Roche e, in uno sforzo congiunto anche Elan Pfizer e Johnson & Johnson.

 

Chi invece ha già scommesso sul potenziale del Biogen sono investitori e speculatori. Già il giorno prima che il professor Seigny presentasse le sue conclusioni, gli analisti del Credit Suisse, basandosi su alcuni report concordi di Barclays, Citigroup, e Rbc Capital, avevano stimato che le azioni di Biogen avrebbero potuto salire a 500 dollari per azione, dai 400 stimati meno di due mesi prima. Le azioni della casa farmaceutica di Cambridge, nel Massachusetts, poi arrivate a 428 dollari, erano già salite del 41% dai primi di dicembre, quando la società aveva cominciato a stuzzicare la curiosità degli investitori con i risultati della ricerca sull’Alzheimer, ancor prima di presentarla ufficialmente tre mesi dopo. In questo periodo la capitalizzazione dio Biogen ha raggiunto 29 miliardi di dollari. Il senso della ricerca della Biogen, al di là delle speculazioni finanziarie, è quello di agire sulle cause più che sui sintomi della sindrome. Si prevede infatti che la malattia colpirà fino a 75 milioni di persone in tutto il mondo entro il 2030 e senza trattamenti efficaci probabilmente i costi delle cure supereranno 1 miliardo di dollari l’anno. Anche per questo motivo il governo americano tre anni fa ha firmato il National Alzheimer’s Project Act, una legge il cui obiettivo è trovare una cura e una strategia di prevenzione efficaci entro il 2025. In concreto la Casa Bianca, seguendo il piano tracciato dal dipartimento della Salute, ha stanziato 156 milioni di dollari di cui 26 destinati al miglioramento dei servizi di assistenza, la formazione e la sensibilizzazione pubblica.

 

Curarsi costa, a maggior ragione se i farmaci sono pochi o in fase sperimentale. Per esempio, la spesa a carico di ciascun paziente ammalato di cancro negli Stati Uniti (il cui servizio sanitario non si fa carico dei costi sostenuti dai singoli) si stima in 150 mila dollari, mentre la cifra complessiva ha raggiunto i 100 miliardi di dollari. Ogni anno sono diagnosticati nel mondo 14 milioni di casi di tumore, e otto milioni di persone ne muoiono. In altre parole, i tumori uccidono una persona ogni quattro secondi. Il dottor David R. Gandara, professore dell’Università della California, specializzato nella cura del cancro ai polmoni, ha proposto di sviluppare test clinici in grado di prevedere il tasso di guarigione di una determinata cura sul singolo paziente, sia per migliorare l’effetto della cura, sia per ottimizzare, dai punti di vista scientifico ed economico, lo spettro della ricerca.

Come ha segnalato sul Financial Times a inizio mese l’Ims Institute for Healthcare Informatics (un istituto di ricerche in campo sanitario), l’industria farmaceutica è sul punto di lanciare una nuova generazione di molecole per la cosiddetta immunoterapia che rappresenta il filone di ricerca più promettente dalla scoperta della chemioterapia negli anni Quaranta. Si tratta di cellule che aiutano il sistema immunitario dell’organismo a difendersi contro le cellule tumorali: un cambio di strategia nella lotta contro il cancro che certamente avrà un impatto economico molto rilevante. Tra le case farmaceutiche che spingono in questa direzione ci sono la Merck & Co, Roche, AstraZeneca e Bristol-Myers Squibb, una delle principali aziende farmaceutiche a livello mondiale, basata a New York e quotata al Nyse. A quest’ultima si deve uno dei più recenti successi contro il cancro della pelle e in particolare contro il melanoma, la forma più grave di cancro della cute che pur rappresentando meno del 5% dei casi, è responsabile della maggior parte dei decessi.

Alcuni studi hanno dimostrato che la combinazione di Opdivo e Yervoy, entrambi farmaci immunoterapici realizzati da Bristol-Myers, ha portato alla riduzione del tumore nel 52% dei pazienti sottoposti alla cura, contro il 34% di chi prende solo l’Opdivo e il 5% di che si cura solo con lo Yervoy. Il timore però è che i sistemi sanitari potrebbero opporsi alla cura a causa degli alti costi: una terapia di un anno di Opdivo costa circa 150 mila dollari, mentre quattro turni di Yervoy ne costano 120 mila.

 

Si stima che i trattamenti di immunoterapia che hanno raggiunto le ultime fasi cliniche siano destinati a diventare entro il 2020 un’opportunità di investimento in un mercato di 25-40 miliardi di dollari, con molte aziende farmaceutiche già in corsa.

Secondo l’Ims, l’incremento futuro dei costi potrebbe essere mitigato da un aumento della competizione fra le aziende farmaceutiche e dall’avvento di farmaci biosimilari, cioè copie a basso prezzo di medicinali biologici per i quali il brevetto è in scadenza. Il governo inglese è già sul piede di guerra: il servizio sanitario nazionale ha respinto infatti l’Olaparib, farmaco contro il cancro alle ovaie sviluppato da un gruppo di scienziati britannici e messo in commercio da AstraZeneca, ritenuto «troppo costoso»: 4.200 sterline al mese per 11 mesi, la media calcolata per la progressione della malattia.

 

Pascal Soriot, amministratore delegato del gruppo farmaceutico, ovviamente deluso, ha commentato che il Regno Unito è «in ritardo» nella cura del cancro e ha messo in discussione l’impegno di Downing Street: «Come può un governo dire che il Paese deve un centro di innovazione quando un farmaco importante come l’Olaparib non trova un mercato?». Quanto accaduto in Inghilterra evidenzia le tensioni tra le industrie farmaceutiche e i sistemi sanitari nazionali. Il problema è conciliare i bilanci nazionali con i costi dei farmaci in un momento in cui la ricerca sembra indirizzata verso nuovi tipi di trattamenti. (riproduzione riservata)