di Roberta Castellarin e Paola Valentini  

Alla fine il caro-tasse è arrivato a colpire anche loro, i fondi pensione, che si erano fin qui salvati dall’aumento dell’aliquota sul capital gain voluto dal governo Monti e ora rincarato dall’esecutivo guidato da Renzi. Nel testo del decreto Irpef approvato in Senato e ora passato alla Camera (dove sarà approvato entro il 23 giugno) è contenuto anche un emendamento che prevede l’aumento dall’11 all’11,5% della tassazione dei fondi pensione.

L’aumento è volto a coprire per quest’anno la sterilizzazione dell’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie dal 20 al 26% per le casse previdenziali privatizzate. L’emendamento infatti prevede in particolare una norma-ponte. «In attesa di armonizzare a decorrere dal 2015 la disciplina di tassazione dei redditi di natura finanziaria» delle casse con quella relativa alle forme pensionistiche complementari, l’aumento al 26% avrebbe comportato per gli enti di previdenza dei professionisti un esborso di circa 50 milioni di euro e avrebbe pesato ulteriormente sui bilanci della casse.

 

«Unici in Europa, siamo sottoposti a una tassazione delle rendite che ci associa a qualsiasi fondo speculativo prevedendo un’ulteriore tassazione all’atto dell’erogazione delle pensioni in misura commisurata agli scaglioni Irpef. Non è stato affatto scontato mantenere i bilanci in positivo vedendo crescere incredibilmente l’aliquota dal 12,5 al 26% nel giro di pochi anni», spiegano dall’Adepp, l’associazione degli enti previdenziali privati.

D’altra parte arriva l’attacco della Cida, la confederazione che rappresenta dirigenti, quadri e professionisti ad elevata qualificazione dei settori pubblico e privato. «Si colpisce una categoria di futuri pensionati per avvantaggiarne un’altra», dice Silvestre Bertolini, presidente Cida. «Aumentare la tassazione sulla previdenza complementare non è che l’ennesimo attacco ai lavoratori dipendenti e in particolare alle giovani generazioni», prosegue Bertolini. «I lavoratori dipendenti sono quelli che più di tutti contribuiscono alle casse dello Stato pagando le tasse fino all’ultimo centesimo e i fondi pensione complementare rappresentano per loro un secondo pilastro per far fronte alla contrazione delle prestazioni pensionistiche offerte dal sistema obbligatorio». La posizione della Cida resta netta: «Non è accettabile aumentare la tassazione dei fondi pensione mettendo in discussione il patto tra lo Stato e quei cittadini che stanno costruendo con sacrificio un’integrazione alla pensione obbligatoria». E proprio nei giorni scorsi il ministro del Lavoro Giuliano Poletti intervenendo alla relazione annuale 2013 della Covip aveva sottolineato la necessità di creare incentivi per stimolare l’adesione alla previdenza complementare. «Il governo non può invocare la coerenza e l’importante ruolo dei fondi pensione, come ha giustamente fatto il ministro Poletti alla recente assemblea di Covip, e poi lasciare che i fatti della politica italiana prendano tutt’altra strada», denuncia Michele Tronconi, presidente Assofondipensione.

Fatto sta che a farne le spese saranno i lavoratori iscritti ai fondi pensione, considerando anche che nel resto d’Europa il sistema più diffuso di tassazione prevede un’esenzione della tassazione dei rendimenti. Seppur modesto, l’aumento della tassazione dello 0,5% su orizzonti temporali lunghi come quelli della previdenza complementare può avere un impatto. Come emerge dalla simulazione di Progetica, società indipendente di consulenza e pianificazione finanziaria, che ha analizzato le conseguenze prodotte sull’assegno previdenziale integrativo da parte di questa stretta fiscale. «L’analisi evidenzia che il passaggio dell’aliquota dall’11 all’11,5% ha impatti ridotti, inferiori all’1% della rendita base», dice Andrea Carbone di Progetica. Che però aggiunge: «L’eventuale aumento dell’aliquota avrebbe dunque un certo valore simbolico, in quanto sarebbe probabilmente la prima misura degli ultimi anni non favorevole alla previdenza complementare, ma sarebbe modesto negli esiti per chi oggi sta versando per integrare in futuro la propria pensione. Qualora la forma della proposta di emendamento fosse confermata, sarebbe peculiare la finalità di questo aumento: chiedere a chi fa previdenza complementare un contributo per compensare l’aumento dell’aliquota dal 20 al 26% per le casse previdenziali professionali». Restano peraltro gli altri vantaggi fiscali dei fondi pensione (si veda grafico pubblicato in pagina), a partire dell’esenzione dell’imposta di bollo. Senza dimenticare il fattore costi. Nell’analisi Progetica ha anche testato l’effetto di una variazione dei costi e dei rendimenti dei fondi. Lo studio parte dall’ipotesi che il risparmiatore stia sottoscrivendo un fondo pensione per avere un’integrazione pensionistica di 1.000 euro annui e sulla base di questo caso sono stati simulati tre scenari di variazione di mezzo punto percentuale (+0,5 e -0,5%) su: aliquota sui rendimenti annui (l’attuale 11%), costi medi (Isc dei fondi aperti) e rendimenti di un benchmark bilanciato.

 

Risultato? «Avere un fondo pensione con costi o rendimenti superiori o inferiori alla media di mezzo punto avrebbe esiti molto più marcati, con variazioni comprese tra il 5 e il 14%, in funzione dell’età», risponde Carbone. Quindi, come nel caso dei rendimenti, commissioni inferiori possono fare davvero la differenza sul montante che si otterrà al momento del buen retiro. Come sottolinea anche l’ultima relazione della Covip, quella relativa al 2013: «Su orizzonti temporali lunghi differenze anche piccole nei costi producono effetti di rilievo sulla prestazione finale. Ad esempio, su un orizzonte temporale di 35 anni e a parità di altre condizioni, in particolare i rendimenti lordi, la maggiore onerosità media rispetto ai fondi pensione negoziali si traduce in una prestazione finale più bassa del 17% nel caso dei fondi pensione aperti e del 23% per i Pip. Infatti tra fondi aperti, negoziali e Pip i costi sono davvero molto diversi, anche dentro la stessa categoria di strumento previdenziale. «Nella previdenza complementare l’indicatore sintetico dei costi (Isc, ndr) che esprime l’incidenza dei costi sostenuti dall’aderente sulla propria posizione individuale per ogni anno di partecipazione mette in luce differenze di rilievo fra le forme pensionistiche, nonché una certa dispersione dei singoli valori all’interno di ciascuna tipologia di forma», avverte Rino Tarelli, presidente Covip. In base ai dati della Commissione di vigilanza della previdenza complementare nei fondi pensione negoziali l’Isc è dello 0,9% per periodi di partecipazione di 2 anni e si abbassa fino ad arrivare allo 0,2% su 35 anni. Sui medesimi orizzonti temporali l’Isc passa dal 2% all’1,1 % nei fondi pensione aperti e dal 3,5 all’1,5% nei Pip. La Covip rileva anche che «circa i tre quarti dei fondi negoziali più convenienti ha costi inferiori rispetto ai valori minimi registrati dai fondi pensione aperti. Per i rimanenti fondi pensione negoziali i costi sostenuti si collocano in un intervallo nel quale si posizionano anche i migliori fondi pensione aperti. Si tratta in particolare di quei fondi aperti che ricorrono all’emissione di differenti classi di quota che prevedono agevolazioni sulla commissione di gestione». (riproduzione riservata)