di Roberta Castellarin e Paola Valentini

La prima picconata alla riforma delle pensioni targata Monti-Fornero ha riguardato le pensioni d’oro, ovvero i maxi assegni pubblici che non sono giustificati dai contributi versati. Nei giorni scorsi la Corte costituzionale ha giudicato illegittimo il prelievo di solidarietà tra il 5% il 15% introdotto con il decreto Salva Italia del governo Monti sugli assegni pubblici che superano 90 mila euro lordi all’anno.

Eppure questo era un provvedimento di equità tra generazioni perchè le pensioni d’oro sono frutto di un sistema, quello retributivo, che non tiene conto dei contributi versati, ma fa riferimento soltanto alle ultime retribuzioni percepite indipendentemente dal numero di anni trascorsi in attività. Il contributivo, invece, introdotto nel 1996 per i neo-assunti e per chi aveva meno di 18 anni di contributi, prevede che l’assegno sia calcolato in base ai versamenti effettuati durante la vita lavorativa. Con il retributivo si ottiene più di quanto versato soprattutto nel caso di pensioni elevate (e quindi di stipendi elevati degli ultimi anni di carriera) e di un numero ridotto di anni al lavoro. Un regalo quindi che le nuove generazioni fanno a quelle precedenti che non trova giustificazioni, a maggior ragione in un momento come l’attuale in cui ai lavoratori e a chi sta per andare in pensione sono stati chiesti sacrifici elevati. La riforma Fornero ha infatti introdotto a partire dal 2012 il metodo di calcolo contributivo per tutti e ha allungato l’età della pensione tanto che oggi in Europa l’Italia è il Paese dove si dovrà aspettare di più per smettere di lavorare, in futuro fino a quasi 70 anni (vedere tabella).

Una riforma che ha penalizzato non solo i giovani. La categoria più duramente colpita è stata anche quella degli esodati, termine coniato proprio in occasione del decreto Salva Italia, ovvero quelle decine di migliaia di lavoratori che a causa della crisi economica erano usciti, o in procinto di uscire, dall’azienda, contando sul breve periodo di tempo che restava fino alla pensione. Ma la riforma Fornero ha aumentato drasticamente, anche di sei anni, l’età per ritirarsi, lasciando questi lavoratori privi di stipendio e di pensione per un lasso di tempo insostenibile dal punto di vista economico. Per correre ai ripari l’ex ministro Fornero aveva emanato alcuni decreti che hanno permesso a una parte degli esodati di andare in pensione con le vecchie regole. Ma ancora oggi non è dato da spere quanto sono esattamente i cittadini italiani che rientrano nella categoria degli esodati, ci sono stime che indicano addirittura in oltre 300 mila la platea di questi lavoratori. Ma il problema dell’allungamento dell’età lavorativa non riguarda soltanto chi è vicino alla pensione, ma è un elemento che interessa tutti perché costringe a restare in attività fino a 70 anni senza peraltro aver previsto misure per venire incontro alle difficoltà legate all’età avanzata. «È impossibile eliminare i regimi di prepensionamento e innalzare l’età pensionabile senza varare provvedimenti che allunghino la permanenza delle persone sul mercato del lavoro basati su opportune misure sanitarie, di organizzazione del lavoro e a favore dell’occupazione», spiega il Parlamento europeo nel nuovo Libro bianco dedicato alle pensioni.

Infatti se le riforme che spostavano avanti l’età del pensionamento «faranno ingrossare il numero di persone dipendenti da altri tipi di prestazioni come disoccupazione, invalidità, assistenza sociale, l’impatto sulle finanze pubbliche sarà molto meno benefico. In tal caso, i bilanci pubblici risparmieranno solo perché i lavoratori anziani riceveranno pensioni ridotte per non poter rimanere attivi fino alla normale età di pensionamento», aggiunge la Commissione. Ciò peraltro comporterà maggiori rischi di povertà in età avanzata. Ecco perchè il Parlamento europeo sottolinea che «un fattore di grande importanza è lo stato di salute delle persone prossime all’età pensionabile, perché influenza la loro capacità e disponibilità di continuare a lavorare e ciò ha un impatto sul mercato del lavoro». È necessario quindi «investire nella prevenzione delle malattie, nella promozione di un invecchiamento attivo e salutare e in cure sanitarie più efficaci per conservare e sviluppare una manodopera produttiva e in buona salute, capace di lavorare più a lungo», afferma il Parlamento.

In ogni caso quello dell’invecchiamento della popolazione è un tema cui gli Stati dovranno fare i conti sempre di più perché l’aspettativa di vita è destinata ad allungarsi. Proprio per tenere conto di questo fenomeno l’Italia ha legato i requisiti di età per andare in pensione alla speranza di vita certificata dall’Istat.

La riforma Fornero ha introdotto così l’età flessibile di pensionamento da 62 a 70 anni, o meglio 70 anni e tre mesi. Infatti quest’anno è scattato anche il primo incremento di tre mesi dei requisiti necessari per ottenere la pensione di vecchiaia (nel 2013 pari a 66 anni e tre mesi per i lavoratori dipendenti e autonomi e le lavoratrici del pubblico impiego, 62 e tre mesi per le lavoratrici del settore privato, 63 e nove mesi per le autonome). Il prossimo ricalcolo scatterà nel 2016, poi dal 2019, l’anno dell’allineamento a 67 anni per la pensione di vecchiaia per tutti, i successivi aggiornamenti ci saranno ogni due anni. Nel regime contributivo è richiesto che l’importo della pensione sia pari a minimo 1,5 volte l’assegno sociale.

C’è anche la possibilità di pensionamento con età inferiori a quella prevista per la pensione di vecchiaia (pensionamento anticipato). Questo nel 2013 è consentito a 62 anni e al raggiungimento di un requisito contributivo minimo pari, nel 2013, a 42 anni e cinque mesi per gli uomini e di 41 anni e cinque mesi per le donne. Se si decide di andare in pensione prima, solo nel retributivo è prevista una penalizzazione dell’1% per ogni anno di anticipo tra 60 e 62, e del 2% per ogni anno di anticipo prima dei 60 anni. Per un lavoratore di 58 anni con 42 anni e cinque mesi di contributi, insomma, la penalizzazione sarebbe del 6%. Nel prossimo quinquennio, però, è previsto un regime transitorio, che non penalizza se si va in pensione con il retributivo prima dei 62 anni. In ogni caso anche questi requisiti contributivi sono adeguati nel tempo in funzione delle variazioni della speranza di vita. Per i lavoratori iscritti per la prima volta al sistema pensionistico pubblico a partire dal 1996 (cioè i lavoratori interamente assoggettati al regime contributivo), è previsto un ulteriore canale di accesso al pensionamento anticipato. Questi soggetti possono accedere al pensionamento a 63 anni e tre mesi (nel 2013), se in possesso di almeno 20 anni di contribuzione e un importo minimo di pensione non inferiore a circa 1.200 euro mensili (che corrisponde a 2,8 volte l’assegno sociale). Inoltre per le donne la riforma Fornero ha confermato l’opportunità introdotta in via sperimentale fino al 2015 dalla legge 243/2004 in base alla quale possono andare in pensione a 57 anni con 35 anni di contributi, ma il loro assegno è puramente contributivo. Un dilemma che potrebbe riguardare molti lavoratori under 62 se passasse la riforma che la commissione lavoro della Camera si appresta a discutere. L’ex ministro Cesare Damiano, attuale presidente della commissione lavoro della Camera, ha detto qualche giorno fa che la discussione in Parlamento della sua proposta inizierà lunedì 17 giugno. Damiano, che ha rilanciato il piano di un’uscita flessibile dal mercato del lavoro, punta a reintrodurre la possibilità di lasciare il lavoro a 62 anni con 35 anni di contributi, una rivisitazione del vecchio sistema delle quote previsto proprio dalla legge che porta il suo nome del 2007. Ma a 62 anni è prevista una decurtazione della pensione dell’8%, che scende di due punti percentuali ogni anno fino ad arrivare a una pensione piena a 66 anni. Per chi sceglie di continuare a lavorare fino a 70 anni Damiano prevede un premio del 2% ogni anno di permanenza al lavoro in più per arrivare a un bonus dell’8% per chi si ritira a 70 anni. Inoltre il progetto di riforma fissa l’asticella per la pensione anticipata a 41 anni di contributi, a prescindere dall’età anagrafica come invece prevede la legge Fornero. La proposta ha come obiettivo anche quello di tutelare gli esodati, ma potrebbe rappresentare una minaccia per i conti dell’Inps, che la riforma Fornero ha cercato di rimettere in carreggiata, ma che ancora non godono di buona salute. Senza dimenticare il peso ancora rilevante delle pensioni calcolate con il generoso metodo retributivo. Ma ora la controriforma delle pensioni punta a garantire l’accesso anticipato alla pensione ai lavoratori che siano in possesso di alcuni requisiti con un sistema di bonus-malus. Si amplia quindi una possibilità già prevista dalla riforma Fornero a una vasta platea di lavoratori. Con il rischio di un moltiplicarsi di richieste di pensione anticipata che andrebbero a pesare da subito sui conti dell’Inps. Resta il fatto che si tratta di una decurtazione che va a incidere su assegni già penalizzati non soltanto dall’adozione del metodo contributivo e dai meccanismi di conversione nel momento in cui si va in pensione, ma anche dalla mancata crescita dell’economia italiana a cui è agganciata la rivalutazione dei capitali accumulati. Il rischio è quindi di andare in pensione presto ma con assegni tutt’altro che d’oro. (riproduzione riservata)