di Osvaldo De Paolini

«Non trova strano che ogni volta che stiamo per chiudere, prontamente arriva una nuova proposta?» Sì, per essere strano è strano. Anzi, queste proposte sembrano confezionate apposta con l’unico scopo di far saltare il matrimonio tra Unipol e FonSai. Incontriamo Federico Ghizzoni al secondo piano di Piazza Cordusio, dove ha sede Unicredit. Lo scopo è un’intervista sul turnaround del gruppo bancario che in soli 20 mesi, cioè da quando Ghizzoni è stato chiamato al timone, grazie a una cura da cavallo che ha visto l’acme nell’aumento di capitale da 7,5 miliardi di gennaio, è riuscito a conquistare una posizione di grande solidità ai vertici della classifica europea. Ma prima di affrontare i temi della riconquista del podio, un ultimo riferimento all’affaire FonSai-Unipol. Osserva Ghizzoni leggendo la nota d’agenzia che annuncia l’ennesima proposta del duo Arpe-Meneguzzo, accolta con entusiasmo da Jonella e Paolo Ligresti. «Il tempo dei rinvii è finito. Ora procederemo senza più tentennamenti a far valere i nostri diritti». Chiuso anche il capitolo del cambio della guardia alle Generali («Il consiglio ha deciso e noi rispettiamo le decisioni del consiglio»), l’amministratore delegato di Unicredit ripercorre brevemente i risultati del primo trimestre, chiuso con un utile netto di circa 1 miliardo, addirittura in crescita rispetto al primo trimestre 2011. Poi legge l’incipit di una lettera inviata da poche ore ai 50 senior manager della banca: «Nella prima metà di quest’anno lo scenario macroeconomico è rimasto complesso e caratterizzato da notevoli disparità nei diversi Paesi europei. Per questi motivi il nostro tornare a fare banca è ora più importante che mai. E sono anche convinto che in un periodo estremamente difficile come questo, una realtà forte può crescere e sottrarre business ai suoi concorrenti». Domanda Mi scusi Ghizzoni, una normale lettera agli operativi. Non percepisco la novità. Risposta. La novità è che siamo tornati a fare banca. D. E prima che cosa facevate? R. Abbiamo riordinato la banca. E ci siamo riusciti piuttosto bene. D. Ma allora non è vero che il modello One4C, il cosiddetto bancone, non funziona. R. Al contrario. Funziona eccome. Basta se le dico che i ricavi della parte commerciale Italia in meno di un anno sono cresciuti del 6,7%? E che i costi, sempre in questo perimetro, si sono ridotti del 4,7%, che diventa quasi l’8% se si considera l’effetto inflazione? D. Mi basta. A patto però che alla fine ci siano anche i profitti. R. Ci sono, e non modesti. Nello stesso periodo il margine operativo lordo è risultato in crescita del 20%. D. Insomma, avanti tutta con il bancone. R. Sicuro. La sola differenza è che il modello si evolve, diventa più sofisticato e più funzionale. D. In che senso? Non è che dobbiamo aspettarci nuove burocrazie aggiuntive? R. Al contrario. Il cliente chiede: datemi un solo interlocutore, che mi porti la pratica sino in fondo senza dover bussare a dieci porte diverse per poi magari sentirmi dire di no. Insomma, vuole risposte certe e soprattutto rapide. E noi abbiamo cominciato a darle. D. Come ci riuscite? R. Delegando. Deleghiamo quanto più possibile. Stiamo allevando una generazione di branch manager capaci di fare tutto, dall’individuazione del cliente alla valutazione del rischio. Un tempo il private banker cresceva in verticale, specializzandosi solo in quell’attività. Adesso gli chiediamo di fare anche altro. E alla fine tutti si è più consci e soddisfatti. D. Così anche la banca ci guadagna. E diventa sempre più forte. R. Certo, uno dei nostri scopi è proprio quello. Non solo per dare soddisfazione agli azionisti nel quadro di una stabilità di risultati alla quale stiamo già puntando, ma anche perché più ci irrobustiremo e più saremo in grado di aiutare l’economia a crescere. D. Quasi una rivoluzione culturale. ?? questo che ha scritto nella lettera inviata qualche giorno fa ai cinquanta senior manager che guidano il gruppo Unicredit? R. Grosso modo è questo. E non farei dell’ironia sulla rivoluzione culturale perché nella sostanza si tratta proprio di un ribaltamento di abitudini e cognizioni. D. Non potevate pensarci prima? A forza di crescere siete diventati così larghi da aver perso di vista il cliente. R. L’euforia dimensionale era tale che alcune banche possono aver dimenticato che le esigenze dei clienti erano diverse da Paese a Paese. Adesso stiamo rimediando. E possiamo farlo grazie a una dimensione internazionale che ci consente di essere sempre più competitivi. D. Il governatore Ignazio Visco sostiene che comunque siete cresciuti troppo. R. Non ha detto proprio così. Ha detto che dopo la crescita sarebbe consigliabile affinare la nostra mission. D. Ma era proprio necessario che Unicredit, così come Intesa Sanpaolo, assumessero dimensioni tanto rilevanti? Molte imprese sostengono che in questo modo si è fortemente ridotta la loro capacità cont r a t t u a l e : meno numerose sono le banche, più difficile è metterle in gara e spuntare condizioni migliori. R. Può darsi che per alcuni imprenditori il dato rilevante sia questo. Osservo però che in Europa solo i gruppi bancari che hanno raggiunto una certa dimensione sono in grado di ristrutturarsi per far fronte alla crescente pressione sul fronte dei ricavi. La dimensione, se ben gestita, è un elemento essenziale della competitività. D. Anche i 250 miliardi della Bce finiti nelle casse della banche italiane al tasso dell’1%, se bene allocati, potrebbero diventare un formidabile fattore di competitività. R. Su questo argomento c’è molta confusione, sia nei giornali sia nei circoli dei cosiddetti bene informati. Comincio col dire che probabilmente nessuna banca italiana avrebbe chiesto 1 euro alla Bce se l’Italia non vivesse un’anomalia che ci obbliga a bussare a Francoforte. D. E quale sarebbe questa anomalia? R. Gli addetti ai lavori lo chiamano funding gap. Detta in parole povere, il rapporto depositi/impieghi del sistema Italia è tra i più squilibrati al mondo. Basti dire che mentre in Germania a fronte di 3.036 miliardi di depositi vi sono prestiti bancari per 2.801 miliardi, in Italia il rapporto è invertito: impieghi per 1.971 miliardi a fronte di depositi per 1.536 miliardi. E se il paragone diventano gli Stati Uniti il confronto diventa ancora più punitivo per l’Italia. D. Comincio a capire. L’anomalia non sta nell’odierno credit crunch, ma nel fatto che si sono concessi troppi prestiti nel passato e adesso è complicato tenerli in piedi. R. Esattamente. Quei 435 miliardi di differenza tra depositi e impieghi vengono infatti dall’estero, che di fronte a una situazione di crescente rischio Italia si è ovviamente fermato. I prestiti della Bce sono quindi una strada obbligata: è stato così ripristinato il canale interbancario che si era chiuso. D. Ma non potrete sempre contare sulla Bce. R. Certo che no. Infatti stiamo battendo anche la strada dei corporate bond, tanto che in pochi mesi siamo diventati terzi in Europa per numero di deal realizzati: 85 da gennaio per un valore di 23 miliardi. D. Ciò vale per i grandi gruppi e per le società quotate. E per le piccole imprese non quotate? R. Stiamo ragionando con il governo per allargare anche a loro questa opportunità. E c’è da riprendere in mano anche la borsa: l’emorragia continua, e questo è sbagliato. Bisogna invertire il flusso. D. Questi sono progetti e belle intenzioni. Ma di concreto che cosa state facendo per le pmi? R. Oltre ad avere destinato 12 miliardi agli investimenti per l’innovazione
tecnologica, abbiamo messo a disposizione fino a 7 miliardi per loro rafforzamento patrimoniale attraverso prodotti che ne facilitino la ricapitalizzazione. D. Basterà a ridurre il fenomeno azienda povera- imprenditore ricco, particolarmente diffuso soprattutto in Italia? R. No. Anche qui ci vuole un cambio di cultura. Però io credo che la crisi stia spazzando via certe brutte consuetudini che sono alla base della debolezza di molte realtà imprenditoriali. Vede, io sono convinto che non sia lontano il momento in cui la crisi comincerà a spegnere i suoi effetti nefasti, ma guai a pensare che la liquidità tornerà ai livelli degli anni caldi. Sarà meno disponibile e soprattutto sarà più cara. D. Unicredit è una banca molto forte anche in Germania, un Paese il cui governo è entrato nel mirino di tutto l’Occidente per la miope intransigenza sulle vicende europee. Non si sente un po’ a disagio per il fatto di contribuire, sia pure indirettamente, al permanere dell’eurocaos? R. Non vedo perché. In Italia come in Germania noi non facciamo politica, facciamo i banchieri. Di più, il fatto di avere diversificato per tempo in un Paese economicamente forte ci sta aiutando notevolmente. D. Quando 20 mesi fa accettò di guidare Unicredit, lei dichiarò a MF-Milano Finanza di avere grande stima della cancelliera Angela Merkel. Ha cambiato idea? R. No, continuo a pensare che dal suo punto di vista stia facendo la cosa giusta. Non dimentichiamo che all’alba del 2000 la Germania era il malato d’Europa: ne sono usciti con grande sacrificio. Ovvio che non vogliono più correre rischi. Nella stessa situazione, probabilmente anche noi italiani ci comporteremmo come loro. Semmai la loro visione sottovaluta il pregio di alcuni interventi a breve. Si correggeranno. D. Speriamo che lo facciano in tempo. R. Come ho già detto, confido che le cose sia pure faticosamente si metteranno a posto. Considero lo scioglimento dell’euro un’idea irricevibile. D. Un’ultima domanda. Considera irricevibile anche l’idea che Mediobanca, vista l’ormai modesta valutazione di borsa, possa diventare un target scalabile? R. C’è un patto di sindacato piuttosto ampio, c’è una governance tutto sommato chiara, francamente fatico a immaginare una possibilità del genere. D. In questi anni sul mercato abbiamo visto di tutto, personalmente non ne sarei sorpreso. R. In quel caso Unicredit non assisterebbe passivamente. Abbiamo un interesse da tutelare. (riproduzione riservata)