di Marcello Bussi

Il vero Supermario è Monti, non Balotelli. Perché l’Italia ha corso il serio rischio di doversi sottoporre al supplizio della Troika, capace di fare dimenticare all’istante qualsiasi vittoria calcistica. Grazie all’abilità negoziale del presidente del Consiglio, forgiata nei lunghi anni trascorsi a Bruxelles come Commissario europeo, prima al Mercato interno poi alla Concorrenza, l’Italia è riuscita a ottenere un meccanismo calma spread per i Paesi virtuosi e a evitare la calata a Roma dei funzionari della Commissione Ue, della Bce e del Fondo monetario internazionale, sinonimo di perdita di sovranità e di disastroso destino greco. Perché, è bene ricordarlo, se il Consiglio Ue si fosse concluso con un nulla di fatto, lunedì 2 luglio, all’apertura dei mercati, si sarebbe scatenata una tempesta simile a quella immediatamente successiva al fallimento di Lehman Brothers nel settembre 2008. Per evitare un esito così letale, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha dovuto ingoiare qualche rospo, al punto che il primo commento a caldo apparso sull’edizione online di Der Spiegel era intitolato Così Italia e Spagna hanno sconfitto la Merkel al summit Ue, accompagnato dall’occhiello La rivolta di Monti. Perché è stato il premier italiano il protagonista della maratona notturna conclusa alle 4,20 della mattina di venerdì. Lo spagnolo Mariano Rajoy si è limitato a sfruttare la sua scia, portando a casa il risultato più immediato e concreto (oltre al calma spread): il Fondo salva- Stati permanente (Esm) potrà ricapitalizzare direttamente gli istituti bancari e non avrà lo status di creditore privilegiato, noma che avrebbe allontanato gli investitori privati. Questo eviterà che gli aiuti messi a disposizione da Eurolandia (fino a 100 miliardi di euro) vadano a gravare sul debito pubblico spagnolo, gonfiandolo al punto tale da rendere quasi inevitabile la richiesta di un sostegno finanziario in quanto Stato sovrano, mettendo la Spagna sullo stesso piano di Grecia, Irlanda e Portogallo. Non per niente il comunicato finale del vertice della zona euro comincia così: «Affermiamo che è imperativo spezzare il circolo vizioso tra banche e debito sovrano». Ma da solo Rajoy non avrebbe avuto la forza di ottenere alcunché perché l’economia spagnola è troppo disastrata. Quella italiana, invece, nonostante la dura recessione, continua ad avere un peso specifico ben superiore grazie alla forza residua della sua componente manifatturiera. Oltretutto Monti è arrivato al vertice con le spalle coperte dall’approvazione definitiva in Parlamento della riforma del lavoro. Che si potrà criticare in mille modi, ma era comunque considerata indispensabile dalla Ue. Senza di essa il premier italiano si sarebbe presentato con poche carte in più di Rajoy. E la Merkel non lo avrebbe ascoltato. Alla vigilia del vertice, Monti aveva messo in chiaro di essere pronto a vendere cara la pelle, affermando che l’Italia avrebbe detto no alla Tobin tax se non sarebbe stato introdotto un meccanismo per bloccare la corsa degli spread dei Paesi in linea con le procedure correnti nella Ue (raccomandazioni specifiche del Paese, procedure di deficit eccessivo e altre procedure che rientrano nel semestre europeo). Dichiarazione fatta in occasione del ricevimento del premio dell’Associazione dei contribuenti europei. La cerimonia si è svolta a Bruxelles nella sede di rappresentanza della Baviera presso la Ue, particolare che ha consentito a Monti di definirsi il primo ministro «più filotedesco» che l’Italia «abbia mai avuto». Chiaro il messaggio alla Merkel: se esco dal Consiglio Ue senza risultati concreti c’è il rischio che arrivi un nuovo premier, sicuramente meno europeista e amico della Germania, magari tentato di portare Roma fuori dall’euro. Che senza l’Italia sarebbe destinato a disintegrarsi. Monti si è presentato determinatissimo al vertice. Consapevole del fatto che, rispetto a soli due mesi fa, in Europa si è verificato un cambiamento politico che ha rivoluzionato gli equilibri interni al Vecchio continente: l’ascesa di François Hollande alla presidenza della Repubblica francese, che ha decapitato il mostro a due teste Merkozy. Hollande ha vinto le elezioni chiedendo un Patto per la crescita da aggiungere a quel Fiscal compact esclusivamente basato sull’austerità voluto dalla Merkel e accettato da Nicolas Sarkozy. Così la cancelliera tedesca è rimasta senza una sponda fondamentale. Un conto è dire no all’Italia spalleggiata dal capo dell’Eliseo, un altro è farlo tenendosi a fianco il premier finlandese. Inoltre la Merkel aveva bisogno dei voti dell’opposizione socialdemocratica (Spd) per fare passare il Fiscal compact al Bundestag. E la Spd aveva condizionato il sì in parlamento al Patto per la crescita, che si concretizza in un piano da 120 miliardi di euro per il rilancio dell’economia. Visto che la Merkel non voleva cedere sul calma spread, Monti ha picchiato letteralmente i pugni sul tavolo e ha posto il veto al Patto per la crescita se la Merkel e i suoi alleati nordici (Finlandia, Olanda, Austria, Slovenia, S l o v a c ch i a e d Estonia) non avessero accettato «l’accordo globale». Rajoy lo ha seguito e Hollande ha fatto sponda, convocando una conferenza stampa notturna per spiegare che approvava questa tattica. A quel punto la Merkel ha capito che senza l’appoggio francese non sarebbe potuta andare da nessuna parte e sarebbe stata l’artefice del fallimento del vertice. Venerdì pomeriggio la cancelliera era frastornata come la Germania dopo il secondo gol dell’Italia, al punto da sostenere che la r i chi e s t a d e l l ’ a t t i – vazione del calma spread avrebbe fatto scendere in campo la Troika. Ma poi si è dovuta correggere perché il Fmi è completamente al di fuori del nuovo meccanismo di stabilizzazione. Monti ha spiegato che non è stato stabilito un livello di spread oltre il quale è previsto l’intervento del meccanismo e ha escluso che l’Italia lo impiegherà nel breve termine. L’importante è che ci sia e la sua stessa presenza è un buon deterrente contro gli attacchi speculativi. Venerdì 29 i mercati gli hanno dato ragione. A Bruxelles Mario ha messo la palla in rete. E di cognome non fa Balotelli. (riproduzione riservata)