Di Andrea De Biase

Diceva di amare l’Italia, di cui apprezzava la bellezza, tanto da aver preso casa (a spese delle Generali) a Venezia in Piazza San Marco, ma dal 1999 aveva deciso di non parlare più in italiano. Una scelta polemica nei confronti di Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi che ne avevano decretato l’allontamento dal vertice della compagnia triestina, di cui era stato consigliere dal 1973 in rappresentanza della Banque Lazard, storico alleato di Mediobanca in Euralux, e poi presidente a partire dal 1995. Potrebbe bastare questo episodio per comprendere come lo spirito di revanche fosse uno dei tratti salienti del carattere di Antoine Bernheim, il banchiere parigino di origini israelite, uno dei protagonisti degli ultimi quarant’anni delle vicende finanziarie italiane, scomparso ieri all’età di 87 anni. Proprio questa voglia di rivincita nei confronti di coloro che erano stati negli anni i suoi principali alleati ha segnato la storia recente di Mediobanca e delle Generali. La scalata di Vincent Bollorè alla banca d’affari, il cui epilogo ha condizionato gli equilibri sull’asse Milano-Trieste degli ultimi dieci anni, nasce proprio dalla cacciata di Bernheim dalle Generali. È infatti l’ex presidente del Leone a convincere il finanziere bretone, di cui era amico di lunga data della madre, a muovere prima verso Lazard, il cui gran capo Michel David-Weill non si era opposto alla mossa di Cuccia e Maranghi, e poi a dare l’assalto alla stessa Mediobanca. Così, solo sei settimane dopo l’uscita di Bernheim dalle Generali, Bollorè comincia a rastrellare azioni della Rue Imperiale de Lyon, una delle scatole che custodiva il controllo della maison di Boulevard Haussmann. Ufficialmente Bernheim si dice estraneo alla mossa di Bollorè, il cui braccio di ferro con David-Weill dura fino al novembre 2000. La tenzone si conclude con la vittoria dei partner di Lazard, cui viene in soccorso il Crédit Agricole, che acquista la quota rastrellata da Bollorè. Il finanziere bretone ottiene però una plusvalenza di 300 milioni e un piccolo pacchetto di azioni Mediobanca. Da lì Bollorè comincia la nuova avventura italiana che riporterà Bernheim sullo scranno più alto delle Generali. L’occasione si presenta nel settembre 2002 quando, ormai scomparso Cuccia (giugno 2000), Maranghi, cui il finanziere bretone aveva offerto il proprio appoggio contro le pressioni delle banche azioniste (Unicredit e Banca di Roma) e dell’allora governatore Antonio Fazio, non esita a «licenziare» Gianfranco Gutty. Al suo posto come presidente viene nominato proprio Bernheim, che a tre anni di distanza ottiene così la su rivincita. Dopo la cacciata di Maranghi da Mediobanca, che capitola dopo aver rifiutato l’aiuto offerto da Bollorè e Bernheim, quest’ultimo rimane al vertice del Leone fino all’aprile 2010. Nonostante il suo potere a Trieste si fondi proprio sulla forza del fronte degli azionisti esteri in Mediobanca, il banchiere parigino si proclama baluardo dell’italianità delle Generali. Ciò non gli impedisce di attaccare il governo di fronte a provvedimenti – come il decreto Bersani sulle liberalizzazioni – sfavorevoli agli interessi della compagnia, o le autorità di vigilanza. Memorabile la presa di posizione contro l’Antitrust di Antonio Catricalà, «colpevole» di aver limitato la crescita del Leone nell’operazione Toro e nella fusione Intesa-Sanpaolo. Proprio il merger tra Ca’ de Sass e Piazza San Carlo offre a Bernheim l’occasione per cercare maggiore autonomia da Mediobanca. Giovanni Bazoli offre al banchiere la vicepresidenza di Intesa Sanpaolo, mentre l’allora ad del Leone, Giovanni Perissinotto, entra nel consiglio di gestione accanto a Corrado Passera. Contestualmente il fronte vicino a Bazoli rafforza la sua presenza nelle Generali. Romain Zaleski, con cui Bernheim condivide la passione per il bridge, rastrella una quota superiore al 2% e ambisce a entrare nel cda. Non se ne farà nulla, ma intanto Bernheim, nel corso dell’assemblea del Leone del 2007, non esita ad attaccare il progetto Eurizon, inviso a Passera, ma anche il suo ad Mario Greco: «È lo stesso manager che quando era alla Ras ha venduto tutti gli immobili. Una cosa che si può fare, ma Generali è contraria a questa strategia». Critiche subito respinte da Greco che, quasi per una nemesi, solo alcuni giorni fa è stato chiamato alla guida delle Generali al posto di Perissinotto. Una scelta promossa dai grandi azionisti privati del Leone ma con il supporto decisivo della Mediobanca di Alberto Nagel. Lo stesso manager che Bernheim riteneva essere, prim’ancora di Bollorè, il principale responsabile della sua sostituzione al vertice delle Generali con Cesare Geronzi, e nei confronti del quale non avrebbe nascosto la propria collera. Così come nei confronti di coloro che, in quei caldi giorni della primavera di due anni fa, riteneva vicini e che invece diedero il via libera al passaggio del banchiere romano alla presidenza del Leone. Tanto da rispolverare per l’occasione un suo vecchio motto: «La reconnaissance est une maladie du chien non transmissible à l’homme» (La riconoscenza è una malattia dei cani che non si tramanda all’uomo). (riproduzione riservata)