Chi oggi ha meno di 40 anni deve avviare fin da subito un piano per integrare l’assegno pubblico, che non basterà a mantenere un tenore di vita adeguato. Ma quanto potrà ricevere dall’Inps un trentenne? E quanto deve versare per avere mille euro in più? 

di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Il cantiere pensioni è chiuso, ma per i giovani l’assegno pensionistico è tutto da costruire. I 35enni di oggi saranno i primi ad andare in pensione interamente con il sistema contributivo. Avranno quindi un assegno che dipenderà da quanto versano durante la loro vita lavorativa.

Un sistema che garantisce lunga vita all’ente previdenziale pubblico, ma che potrebbe rivelarsi avvelenato per i giovani italiani. L’allarme lo ha lanciato di recente uno studio dell’Università di Milano che si chiede: «Pensioni contributive e flessibilità: scommessa vincente o combinazione fatale per i giovani?». L’analisi rivela che può stare tranquillo chi è stato assunto da giovane a tempo indeterminato, sviluppa una carriera lunga e non frammentata, guadagna bene e aderisce a un fondo pensione, versando il 9,3% dello stipendio. Per gli altri il futuro sarà meno roseo. Un mercato del lavoro molto più flessibile con sempre meno contratti a tempo indeterminato comporta minori contributi e quindi un assegno più magro. Bastano cinque anni da parasubordinato per ridurre l’assegno dell’8% rispetto a quanto percepirà un lavoratore assunto da subito. Confermando quanto certificava uno studio della Commissione Ue: «L’Italia è tra i Paesi europei in cui i periodi di disoccupazione hanno maggiore incidenza sul livello delle pensioni».

Le soluzioni? «Un diverso tipo di welfare pubblico, maggiormente redistributivo, e più previdenza complementare per chi se lo può permettere», è la ricetta di Matteo Jessoula, ricercatore del dipartimento studi sociali della Statale di Milano. A riaprire il cantiere pensioni Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, non ci pensa affatto. Ma sulla crucialità della pensione di scorta è pienamente d’accordo: «Le prossime generazioni, che 35 anni e anche meno, saranno le prime le cui pensioni saranno pagate interamente con il sistema contributivo e quindi devono costruire un pacchetto previdenziale che sia un mix tra pensione obbligatoria e pensione complementare». In altre parole l’assegno pubblico non basterà. Come sottolinea anche Andrea Carbone della società Progetica, che ha effettuato un’analisi perMilano Finanza sulle future pensioni di chi oggi ha 20-30 anni: «A conti pubblici in ordine potranno corrispondere assegni pensionistici pubblici che a fatica copriranno i primi 15 giorni del mese». Da qui la necessità di correre ai ripari, con l’obiettivo di aggiungere mille euro di rendita privata all’assegno pubblico. Un traguardo possibile se si aderisce ai fondi pensione fin da subito, con versamenti mensili intorno ai 400 euro, come emerge sempre dall’analisi di Progetica. Un impegno non facile per la generazione mille euro. In base ai dati Istat lo stipendio medio di chi inizia a lavorare adesso è di 900 euro al mese e raggiunge 1.300 euro solo dopo 20 anni di attività.

E alla fine della carriera si arriva a una pensione pari al 45-50% dell’ultimo stipendio. Una situazione che ha ben presente anche il ministro, che pensa a una soluzione di ridistribuzione tra generazioni in famiglia, con i genitori che aiutano i trentenni a riscattare la laurea e a investire in un fondo pensione. «Le nuove generazioni devono mettere in questo pacchetto il percorso educativo», sottolinea Sacconi, «riscattando la laurea, l’iniziale percorso lavorativo, che è contrassegnato da carriere discontinue e da spezzoni di lavoro di varia natura, e poi la fase di lavoro a tempo indeterminato. Solo in questo modo possono ridurre al minimo il rischio previdenziale. Tanti anni fa le famiglie italiane regalavano ai loro figli un libretto di risparmio bancario o postale. Oggi possono regalare ai loro figli un risparmio previdenziale».

Un invito finora poco raccolto dagli italiani.Secondo i dati Covip, gli iscritti ai fondi previdenziali sono circa 5,3 milioni, su una platea di 23 milioni di lavoratori. Tra le famiglie, in base ai dati di fine 2010 della Banca d’Italia, i fondi pensione costituiscono una quota pari all’1,8% delle attività finanziarie, contro il 13% in Germania e il 24,4% negli Stati Uniti. E tra i giovani lavoratori, solo il 10% aderisce alla previdenza integrativa.

Ma quanto bisogna destinare a questo risparmio previdenziale? Come si può vedere dalle tabelle, Progetica stima il momento del pensionamento e l’importo del relativo assegno pubblico per giovani di 20, 25 e 30 anni che abbiano iniziato a lavorare nel 2011, distinguendo tra lavoratori dipendenti, autonomi e parasubordinati. Per quanto riguarda la data della pensione non c’è un dato unico, ma una forchetta in base agli scenari demografici di crescita della speranza di vita. Per esempio per una 30enne di oggi l’addio al lavoro potrà avvenire tra il 2044 e il 2047, a seconda di quanto aumenterà la vita media in questi 30 anni. Diverso il caso dei 20enni, che andranno tutti i pensione nel 2052, perché per loro il requisito è sempre quello dei 40 anni di contributi. Per quanto riguarda la stima dell’assegno pensionistico pubblico, questa dipende dalle ipotesi su crescita del Pil, del reddito, oltre che da differenti scenari di adeguamento dei coefficienti di trasformazione in rendita e dalla data dell’addio al lavoro. Dall’analisi emerge chiaramente come nel sistema contributivo la prestazione pensionistica sia collegata, tra l’altro, all’aliquota contributiva, che è del 33% per i dipendenti, del 26,72% per i parasubordinati e del 20% per gli autonomi. E’ poi fondamentale la durata del periodo contributivo: lavorare per un numero minore di anni comporta l’accumulo di minori contributi, rivalutati, sul proprio conto previdenziale, e dunque una minor pensione. Il futuro assegno pensionistico per chi inizia a lavorare oggi con un percorso di carriera moderato, che porti ad avere -a parità di potere di acquisto- un’ultima retribuzione lavorativa di 36 mila euro annui, oscilla in media poco sopra a mille euro. Che scendono intorno a 700 per i lavoratori autonomi. Esistono comunque situazioni molto differenziate: chi è dipendente o parasubordinato versa un’aliquota contributiva maggiore: per costoro l’assegno può arrivare a 2 mila euro se prevarrà uno scenario molto positivo, ossia se ci sarà una crescita reale del Pil e della retribuzione dell’1,5% per tutto il periodo di accumulo. Nel valutare queste stime è importante ricordare che questi valori sono calcolati in ipotesi di continuità lavorativa: con carriere discontinue, come spesso accade oggi, tassi di sostituzione potrebbero ulteriormente abbassarsi. La fotografia di Progetica copre anche la previdenza complementare. Come emerge dalle simulazioni, iniziare fin da giovani (tra 20 ed i 30 anni) a versare una parte dello stipendio in un fondo pensione comporta notevoli benefici «perché il tempo è un grande alleato. A parità di età di pensionamento, più si tarda nel versare, maggiore sarà il versamento da effettuare per raggiungere il proprio obiettivo previdenziale», dice Carbone. Nella tabella è anche riportato l’indice di efficienza, che esprime il rendimento di ogni euro investito in previdenza complementare. Si può notare che per le forme bilanciate questo indice è costantemente sopra il 2 e quindi risultano più efficienti rispetto a quelle garantite. Per un 20enne che andrà in pensione a 61 anni ci vuole un versamento di 503 euro se sceglie la linea garantita e di 284 per la bilanciata. Mentre per un trentenne dipendente che andrà in pensione a 67 anni questi importi diventano di 460 e 275 euro. Quindi somme inferiori, perché andando in pensione più tardi il trentenne avrà bisogno di un montante minore da traformare in rendita, avendo una speranza di vita più bassa al momento della pensione.

 

 

Ma questi versamenti non sono troppo alti se si parte da uno stipendio di mille euro? «Non bisogna dimenticare che ci sono alcuni preziosi alleati. Primo tra tutti il Tfr per i lavoratori dipendenti. Chi aderisce ai fondi pensione ha l’obbligo di versare quel 7% dello stipendio che viene messo da parte dal datore di lavoro come liquidazione al momento dell’addio al lavoro. Bisogna poi tenere conto delle agevolazioni fiscali sui versamenti e di quanto incide la scelta della linea», risponde Carbone. Che aggiunge: «Qualora il versamento fosse comunque superiore alle proprie possibilità, si può ridurre l’obiettivo, almeno per i primi anni nei quali le retribuzioni sono basse, per poi monitorare e adeguare nel tempo l’andamento del proprio piano pensionistico. L’importante è non perdere l’opportunità di iniziare fin da giovani». (riproduzione riservata)