Il warning di Moody’s sul merito di credito sovrano innervosisce i mercati. Per gli esperti sono necessarie misure per stimolare la crescita Altrimenti l’intero sistema nazionale è a rischio

Con lo spettro del downgrade greco che si aggirava per l’Europa da settimane, i dubbi sulla tenuta dell’euro e la situazione di instabilità politica del Paese, ci mancava soltanto il warning di Moody’s a peggiorare il malumore dei mercati sull’Italia. Ancora di più dopo che l’agenzia, dopo avere messo in creditwatch il debito pubblico (attualmente Aa2) e, a seguire, gli emittenti a partecipazione statale, giovedì 23 ha annunciato analoga iniziativa sulle banche nazionali, mettendone sotto osservazione 16 e cambiando l’outlook, da stabile a negativo, su altri 13 istituti. L’allarme-debito, del resto, teneva banco già da un po’, in generale da quando sono esplose le tensioni sui periferici e in particolare dallo scorso maggio, quando l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha abbassato l’outlook sull’Italia da stabile a negativo. La terza agenzia di rating, Fitch, non non intende cambiare né il rating né l’outlook sul debito sovrano (almeno per ora), ma in un contesto simile non appare fuori luogo chiedersi quanto un downgrade sia possibile, e quali potrebbero essere i suoi effetti sulle società italiane e sulle istituzioni finanziarie – banche e assicurazioni – esposte sui titoli di Stato. Borsa & Finanza lo ha chiesto ad alcuni esperti della comunità finanziaria, in un sondaggio dal quale è emerso che il declassamento è in effetti uno scenario più che plausibile.

IL QUADRO. È vero che l’Italia, a differenza di altri Paesi, ha una situazione a livello di conti pubblici in sostanziale equilibrio. Il tasso di risparmio è elevato e rispetto alla Grecia ha un’eccedenza fiscale primaria che facilita le aste e dà fiducia al mercato. Anche la manovra correttiva da 40 miliardi di cui si parla negli ultimi tempi dovrebbe portare entro il 2014 a una riduzione del rapporto debito-pil al 113 per cento. Allineandolo a quanto richiesto dall’Europa. Dunque, più che un problema di credito, per gli esperti intervistati il fattore critico è la mancata crescita del Paese. E in tal senso la strada da percorrere è ancora lunga. Tre le riforme a cui guardare: una a livello fiscale, un’altra sul mercato del lavoro, e un’ultima sul mercato dei beni e dei servizi, che dovrebbe passare attraverso una riduzione della presenza pubblica. Un fallimento su questi aspetti, unito a un’eventuale riforma del fisco capace di sbilanciare l’equilibrio dei conti potrebbe pesare negativamente sul giudizio dell’Italia, portando Moody’s a rivedere il rating italiano (addirittura già entro i prossimi due o tre mesi). E, a cascata, quello di regioni, società a partecipazione statale e banche.

AZIENDE NEL MIRINO. Sotto la lente d’ingrandimento dell’agenzia sono già finite alcune grandi regioni, come Basilicata, Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Marche, Sicilia, Toscana, Umbria e Veneto; ma anche le province autonome di Trento e Bolzano e quelle di Arezzo, Bologna, Firenze, Genova, Milano e Torino. E la carrellata non si arresta. Molte società a partecipazione statale come Enel, Eni, Finmeccanica, Poste Italiane, Terna, ma anche A2A, Acea e la Compagnia Valdostana delle Acque, (controllate da enti locali) sono attualmente sotto esame. Oltre a 16 banche, finite anch’esse in creditwatch per un possibile declassamento (tra cui Intesa Sanpaolo, Mps, Banco Popolare, oltre la Cassa depositi e prestiti). Altre aziende altamente indebitate e con forte generazione dei ricavi in Italia, come Telecom, non sono state menzionate da Moody’s ma, a detta dei più, potrebbero essere indirettamente influenzate da iniziative sul rating sovrano. Tra gli emittenti partecipati dallo stato, Enel secondo alcuni intervistati potrebbe risentire pesantemente anche dell’addio prematuro dell’Italia all’energia nucleare, su cui vertivano chiari progetti di sviluppo. Mentre Eni, che vede in Libia il principale operatore estero nel comparto petrolifero, potrebbe continuare a soffrire delle incertezze politiche del Paese.
Insomma le dinamiche di un eventuale taglio di rating sono diverse ma in linea generale i principi sono gli stessi: forte indebitamento, scarsa crescita e conseguente diminuzione del service coverage ratio (che per il debito corporate idealmente dovrebbe essere superiore a 1-1,2). Il risultato? Per i più è possibile un variazione del rating anche sulle società, seppur solo in un secondo tempo rispetto ad un eventuale taglio del rating sovrano. Per qualcun altro, invece, soltanto un probabile aumento nel costo del finanziamento, pur senza un effettivo downgrade del giudizio. O quanto meno non fino a uno slittamento dell’Italia di più gradini nella scala del merito di credito. Ipotesi, per ora, comunque lontana.

BANCHE E ASSICURAZIONI. Ma la partita non è chiusa. Se è comunque vero che l’Italia non è assolutamente a rischio default è altrettanto evidente che un taglio di rating potrebbe pesare sul debito tricolore. Con annesso danno a tutti quegli istituti creditori del Bel Paese che si troverebbero a sostenere un maggior costo della raccolta. Ergo: banche e assicurazioni.
In Italia l’esposizione degli istituti di credito nazionali al debito sovrano si aggira infatti intorno ai 130 miliardi di euro, ossia circa il 72% sul totale dei bond governativi in portafoglio (180,6 miliardi). Troppo anche per S&P che non molto tempo fa puntava l’indice contro l’eccessiva concentrazione dei nostri istituti sul debito italiano. Ma anche le banche di Belgio o Francia (si veda tabella in pagina), la cui esposizione sul debito italiano all’interno di un più ampio portafoglio bond si aggira rispettivamente intorno al 23% (25,2 miliardi di euro su 108,8 miliardi) e al 20% (47 miliardi su 235,4 miliardi) hanno un peso piuttosto consistente. Tra i nomi principali poi, in ordine di esposizione, ecco apparire in lizza Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banca Mps e Banca Popolare. Mentre tra le assicurazioni il focus si sposta su Fondiaria-Sai (il cui peso sulle obbliagazioni tricolori è addirittura sopra il 92% con 14,25 miliardi di euro), Unipol (65,63% con 6,40 miliardi) e Generali il cui peso sul debito italiano si attesta intorno al 37% rispetto alle obbligazioni totali. Spesso con l’obiettivo di bilanciare i molteplici impegni assicurativi.

IL COSTO DEL DEBITO. E in ultimo ecco la piaga peggiore: un eventuale allargamento dello spread tra Btp e Bund. Se solo il rating scendesse di un grado (Aa3, quindi), per i più il differenziale sul rendimento decennale potrebbe salire fino a 300 punti base. Per quanto il costo di rifinanziamento sul debito italiano riguarderebbe solo le nuove emissioni e le cedole dei titoli indicizzati, ossia i Cct, mentre per i Btp il costo continuerebe a dipendere anche dal tasso di inflazione. Inizialmente, dunque si potrebbe ipotizzare un costo complessivo di 500 milioni di euro, ossia lo 0,7% dell’attuale costo annuale per interessi. C’è da dire che sul mercato inizia già ora a serpeggiare la tensione, tant’è che venerdì 24 il differenziale tra i due decennali era già volato a 214, ai massimi di quest’anno. E solo se il Governo riuscisse ad anticipare la manovre, secondo alcuni intervistati il differenziale potrebbe tornare a scendere in misura consistente.