LUCA IEZZI

Italia chiusa al mercato. La rivoluzione liberalizzatrice non è alle viste, la concorrenza crea solo diffidenza, i monopolisti possono difendere le loro ragioni a dispetto persino dell’Europa.
Solo un mese fa era stato il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi a chiedere di «combattere gli interessi corporativi che in più modi opprimono il Paese; è questa una condizione essenziale per unire solidarietà e merito, equità e concorrenza, per assicurare una prospettiva di crescita al Paese».
La settimana scorsa il garante per il mercato Antonio Catricalà ha dato nomi e volti agli oppressori.
w segue alle pagine 10 e 11

In prima fila c’è proprio la politica con governo e Parlamento a sostenere una cultura contraria alla concorrenza, ha detto il presidente dell’Antitrust nelle sua ultima relazione (è alla fine del suo mandato): «È prevalsa una sfiducia di fondo verso l’idea che un’economia aperta e in libera concorrenza possa produrre benessere diffuso e progresso. È cresciuta la domanda di protezione e solo timidi passi sono stati compiuti in direzione di un sistema meno ingessato e più favorevole al libero confronto nel mercato. L’attività del Parlamento è stata caratterizzata dalla centralità di alcune tematiche (in primis la crisi) cui è corrisposto un sostanziale stallo dei processi di liberalizzazione».
Se non proprio un ammissione di sconfitta, almeno la denuncia di chi da anni è costretto a lavorare controcorrente senza l’aiuto della maggioranza e del governo: «Il percorso virtuoso intrapreso in continuità con la stagione di liberalizzazione dei mercati degli anni 2006 e 2007 si è presto interrotto — insiste Catricalà — la crisi sopraggiunta ha offerto a molte categorie l’occasione propizia per tornare a invocare con successo l’intervento protettivo dello Stato».
Sono lontani i tempi delle “lenzuolate” di Bersani diventate prima una pietra miliare della storia dell’apertura dei mercati e poi, proprio per questo, trasformate in un monumento da abbattere dalla maggioranza di centrodestra. E’ completamente cambiata la prospettiva: se all’inizio del decennio la scelta dell’apertura dei mercati non era in discussione e “i nemici” erano le grandi imprese, o intere categorie come banche o compagnie petrolifere, restie a cedere posizioni, ora ad essere messi in dubbio sono proprio gli effetti positivi della concorrenza.
Nella legislatura in corso il valore delle liberalizzazioni è sempre stato dichiarato e mai perseguito nelle norme reali. La qualità dell’opera del governo è ben sintetizzata dalla vicende della legge sulla concorrenza, che dovrebbe iniettare annualmente dosi di libertà a vari settori, eliminare lacci e colpire gli oligopoli, ma che da ormai da due anni non riesce ad essere approvata dalle camere. L’ultimo ddl è atteso invano dal 31 maggio 2010 e la bozza elaborata dal ministero dello Sviluppo Economico disattende molte delle indicazioni dell’Autorità.
Si esaurisce per lo più in un nuovo tentativo di creare più competizione nella distribuzione dei carburanti, ma è talmente debole che la stessa Antitrust è stata costretta ad intervenire preventivamente perché l’attuale regime stava per essere modificato in senso restrittivo.
L’altro caso di clamorosa restaurazione è la direttiva europea sui “servizi” che doveva rendere più omogenea la disciplina tra i paesi comunitari sull’immenso universo delle prestazioni professionali (dagli avvocati agli idraulici). Nella versione italiana è stata l’occasione per rafforzare le numerose barriere all’entrata degli ordini professionali, per bloccare l’attività delle parafarmacie, smontare altre parti delle liberalizzazioni degli anni scorsi come quelle su tassisti ed autisti. Ciliegina sulla torta il rafforzamento del testo unico sulla finanza per avere norme anti Opa che scongiurassero le scalate delle aziende italiane. Una vera Antilenzuolata.
A livello locale questa strisciante cultura si è ulteriormente radicata tanto che l’Antitrust, parla di «trend addirittura opposto rispetto alle politiche di liberalizzazione e di privatizzazione attuate a livello nazionale. Proprio dagli enti locali, responsabili nel dare alle società l’indirizzo e nel vigilarne l’attività, è venuta la maggiore resistenza ai vari tentativi di riforma». Anche qui alla fine è la politica a definire gli equilibri: la regolazione dei servizi pubblici locali è stata oggetto di tre leggi in tre anni, riforme successive che hanno ottenuto risultati parziali e contraddittori. Alla fine l’Antitrust può monitorare l’attività di Regioni, Comuni e Province, spesso interviene per segnalare e cassare provvedimenti illegittimi, ma non ha poteri sanzionatori reali e le sue decisioni vengono impugnate innescando lunghe contenziosi presso Tar e consiglio di Stato.
Con un tale track record non ci sono molte speranze sui reali successi nello smantellamento dei monopoli che proprio nel 2011 dovrebbero cadere: poste e ferrovie.
L’Europa insiste, l’applicazione pratica nel nostro paese è a dir poco a singhiozzo. Sul trasporto ferroviario si sta verificando quanto già visto sul mercato del gas e della telefonia fissa: se l’ex monopolista rimane proprietario della rete i concorrenti hanno spazi limitati di crescita e mille difficoltà nel rubare quote di mercato. E la direttiva servizi ha reso ancora più difficile imporsi anche solo nel trasporto locale. L’ulteriore controindicazione è che in questa situazione lo Stato, proprietario al 100% delle Fs, si trova a giocare il triplo ruolo di regolatore e arbitro imparziale, soggetto politico chiamato a stimolare la qualità del servizio a costi ragionevoli e azionista interessato a non mettere in difficoltà la società finalmente in buona salute finanziaria dopo decenni di dissesti. Delle tre istanze è probabile che proprio quella dell’apertura del mercato sarà destinata a soccombere.
Anche per la gestione della corrispondenza si annuncia una riforma al rallentatore affidata ad una agenzia governativa che contratterà punto per punto con l’incumbent Poste Italia cosa lasciar fare e come ai nuovi entranti.
Le grandi aziende a controllo pubblico, ma anche i fornitori privati di servizi indispensabili (autostrade, telecomunicazioni, banche e assicurazioni) e le aziende locali hanno sfruttato la crisi per proporre un patto a regolatori e interlocutori politici: investimenti, tagli ai posti di lavoro ridotti al minino in cambio di maggior protezione. Le rendite diventano garanzia di sicurezza per tutti, ma il governatore Mario Draghi ha ammonito tutti che il meccanismo non funziona: «La concorrenza, radicata in molta parte dell’industria, stenta a propagarsi al settore dei servizi, specialmente quelli di pubblica utilità. Non si auspicano privatizzazioni senza controllo, ma un sistema di concorrenza regolata, in cui il cliente, il cittadino sia più protetto. La sfida della crescita non può essere af
frontata solo dalle imprese e dai lavoratori direttamente esposti alla competizione internazionale, mentre rendite e vantaggi monopolistici in altri settori deprimono l’occupazione e minano la competitività complessiva del Paese».