Nel 2022, nel Regno Unito circa 23.400 imprese hanno dichiarato fallimento, il livello più alto dalla crisi finanziaria globale del 2009

Prima della pandemia, le insolvenze d’impresa in UK erano stabili: tra il 2015 e il 2019 circa 16.500 imprese all’anno erano state dichiarate insolventi. In calo anche il tasso di insolvenza, passato da 47 a 42 insolvenze per 10.000 imprese attive. Nel 2019 le insolvenze sono state relativamente contenute, passando da circa 250 insolvenze per 10.000 imprese attive tra il 1992-93 a circa 40 per 10.000.

La riduzione delle insolvenze è stata in gran parte giustificata dal calo dei tassi di interesse negli ultimi trent’anni, spiega Coface in un report, ma anche dal miglioramento della situazione macroeconomica rispetto al 1992-93, oltre che da fondamentali più solidi. In particolare, la marginalità netta delle imprese quotate era passata dal 4,3% del 1992-1993 al 7,6% del 2017-19.

Il 2020 è stato un anno singolare, poiché le numerose misure adottate dalle autorità pubbliche per sostenere le imprese durante i periodi di lockdown hanno cambiato completamente le dinamiche d’insolvenza. Queste misure, come la cassa integrazione, i prestiti garantiti, la sospensione di alcune leggi commerciali (lawful trading rules) e una moratoria che limita le domande di liquidazione (winding up petitions), hanno provocato un calo senza precedenti del numero di insolvenze nel 2020 (-28%), rimanendo a un livello storicamente basso durante la prima metà del 2021.

Una volta sospese queste misure, i prestiti garantiti rimborsati e le moratorie scadute, le insolvenze hanno cominciato a rientrare nella normalità. Così, con la fine di alcune leggi commerciali il 1° luglio 2021, il numero di liquidazioni volontarie ha subito un rapido incremento. Anche le liquidazioni giudiziarie sono aumentate ulteriormente dopo la fine della moratoria nel febbraio 2022. Nei mesi successivi si è registrato il 50% di insolvenze in più e dopo sei mesi l’aumento era quasi triplicato.

Le insolvenze d’impresa sono cresciute dell’11% nel 2021 e del 57% nel 2022, superando il livello del 2019 del 26%, il livello più alto dal 2009. È importante evidenziare che nel 2019 le micro-imprese rappresentavano il 73% delle insolvenze, nel 2022 la quota è salita all’81%. Escludendo questa categoria di imprese, il numero di insolvenze è rimasto inferiore al 9% rispetto al livello del 2019. Questo spiega perché, malgrado il numero di imprese insolventi sia aumentato, l’impatto sui livelli di disoccupazione e in termini di costo finanziario è stato limitato.

Dal 2023: una situazione nella norma ma non certo positiva

Le imprese britanniche si trovano ora senza misure di sostegno, in un contesto in cui le insolvenze sono ancora una volta determinate dai livelli di liquidità, redditività e dalla loro capacità di far fronte agli obblighi finanziari. Si torna così ad uno schema già ben noto ma non necessariamente facile per le aziende.

Infatti, molte imprese hanno registrato un incremento del proprio debito durante i periodi di lockdown, che dovrà essere rimborsato o rifinanziato nei prossimi anni. I costi rimarranno comunque elevati anche in relazione ai prezzi dell’energia, delle materie prime in generale e dei livelli salariali. Inoltre, nel 2023 i consumatori hanno visto diminuire il reddito disponibile reale per il secondo anno consecutivo.

Tutto questo accade in un momento in cui il contesto di bassi tassi di interesse, che ha consentito a molte aziende di prosperare, è finito. I tassi di interesse di cui beneficiano le società private non finanziarie sono scesi da una media del 3,1% nel 2019 al 6% nel 1° trimestre del 2023. Inoltre, con il fallimento della Silicon Valley Bank nel marzo 2023 le prospettive per i tassi sono solo che peggiorate. Le banche, che avevano già inasprito le condizioni di accesso al credito ancor prima di questo fallimento, si prevede che continueranno a farlo nei prossimi mesi. Questa situazione potrebbe quindi innescare una spirale in cui l’incremento delle insolvenze porterebbe a una restrizione del credito bancario che, a sua volta, danneggerebbe la redditività delle imprese, portando a nuove insolvenze.

Alcuni settori sono più esposti di altri a questi rischi

Nel 2022 le insolvenze in settori come quello farmaceutico e chimico erano prossime ai livelli del 2019. Al contrario, il settore agroalimentare ha risentito dell’aumento dei costi e dell’instabilità delle catene di approvvigionamento: quasi 300 aziende del settore sono fallite nel 2022, con un incremento dell’83% rispetto al 2019 e un aumento delle insolvenze pari al 50% nel 1° trimestre 2023 rispetto al 2022.

Anche altri settori, come quello automobilistico, dei trasporti, dell’energia e delle costruzioni, hanno registrato una forte impennata delle insolvenze; l’edilizia in particolare, è stato il settore più colpito nel 2022 con circa 5.200 insolvenze, ovvero un aumento del 34% rispetto al 2019. Per i prossimi mesi, le imprese del settore alberghiero e della ristorazione, della distribuzione e dell’edilizia saranno probabilmente le più esposte a un rischio di insolvenza moderato o significativo rispetto ad altri settori. Quasi un quinto delle imprese del settore alberghiero e della ristorazione si dichiara molto sensibile agli aumenti dei salari e dei prezzi dell’energia, nonché ai cambiamenti nelle abitudini dei consumatori.

L’analisi delle domande di liquidazione depositate e delle dichiarazioni di intento emesse indicano un ulteriore aumento delle insolvenze nella maggior parte dei settori. È probabile che i settori metallurgico, chimico e delle costruzioni registreranno maggiori insolvenze, in un contesto di calo della domanda e con costi ancora elevati nei settori energivori.

La situazione di difficoltà che moltissime imprese del Regno Unito hanno vissuto e stanno continuando a vivere non è che la conseguenza di una serie di sfide e cambiamenti sopraggiunti nell’ultimo periodo” – commenta Ernesto De Martinis, Ceo di Coface in Italia e Head of Strategy Regione Mediterraneo & Africa. “Le insolvenze d’impresa hanno avuto una rapida impennata, passando dall’11% nel 2021 fino al 57% nel 2022 e non hanno risparmiato settori come quello dell’energia, dei trasporti, delle automobili e soprattutto quello dell’edilizia. Le prospettive per l’anno 2023 sono di maggiore stabilità ma restano caratterizzate da una certa negatività.”