di Marco Capponi
La previdenza complementare italiana si prepara ad accogliere il nuovo strumento del Pepp (Prodotto Pensionistico Individuale Paneuropeo), dopo la ricezione nell’ordinamento nazionale del regolamento Ue dello scorso 22 marzo. Un prodotto che, nonostante gli elementi positivi legati ai costi ridotti, alla sua natura totalmente digitale (è stato pensato anche per i giovani che entrano adesso nel mondo del lavoro) e soprattutto al suo «passaporto» continentale che permette al lavoratore di proseguire i versamenti anche se si trasferisce in un altro Paese del blocco, ha fatto storcere il naso soprattutto per un aspetto cruciale: in Italia non sarà possibile contribuire con il proprio tfr. Una decisione che ha una sua logica, come spiegato al Salone del Risparmio di Milano da Nicola Mango, dirigente responsabile della previdenza complementare presso il Mef. «Abbiamo voluto far sì che, come prodotto di terzo pilastro, il Pepp sia pensato per chiunque voglia un secondo prodotto di previdenza complementare, e per questo abbiamo deciso di escludere il tfr». Il ministero ha pensato, ha aggiunto, «che col conferimento del trattamento di fine rapporto ci sarebbe stato, per gli operatori, un focus eccessivo su una sola tipologia di clientela». Il tfr però, non va dimenticato, «ha già le sue destinazioni naturali: il Pepp va pensato per una platea differente, nuovi risparmiatori rispetto alla tipologia di quelli che attualmente non sono coperti». Il Pepp è peraltro solo un primo passaggio verso l’evoluzione della previdenza, e su questo punto è stato concorde Fabio Galli, direttore generale di Assogestioni: «Nel momento in cui pensiamo a recepire i Pepp, che arrivano dall’Europa, dobbiamo poi fare i passi successivi, partendo da questo punto per poi sviluppare la previdenza complementare nel Paese». (riproduzione riservata)
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