Marco Capponi
Lo scorso 26 aprile è iniziata a Mosca la quattro giorni di Obuv, una delle principali fiere internazionali delle calzature e del cuoio. Sono state quasi 50 le aziende del settore calzaturiero italiano che hanno partecipato, molte delle quali provenienti dal distretto marchigiano, tra i più grandi a livello nazionale. Alcune di queste realtà hanno fino all’80% del fatturato generato nel mercato russo. Nessuna violazione delle sanzioni, che non bloccano la vendita di articoli sotto i 300 euro di prezzo, anche se l’adesione delle piccole imprese all’evento ha fatto storcere il naso a quanti ritengono in ogni modo immorale continuare a fare affari con il paese che ha invaso l’Ucraina. «Siamo a Mosca a vendere le nostre scarpe, frutto del lavoro quotidiano di centinaia di dipendenti dietro cui ci sono famiglie», ha spiegato sulle colonne della stampa locale Valentino Fenni, vicepresidente nazionale di Assocalzaturifici, lasciando intendere come alle questioni etiche che stanno dietro ai grandi eventi geopolitici, comunque non trascurabili, il tessuto delle piccole e medie imprese stia anteponendo un altro problema: il rischio di default e perdita dei posti di lavori per decine di migliaia di persone.

Sono oltre 26.500, secondo un rapporto del gruppo di mediazione creditizia Nsa e dell’università Cattolica di Milano, le persone che rischiano di rimanere a casa a causa dello stop alle esportazioni verso la Russia. In totale, 1.200 imprese potrebbero chiudere i battenti: e considerando gli effetti collaterali, dai rincari energetici allo stop alle catene di fornitura, questi numeri potrebbero addirittura raddoppiare. Guardando alle aziende italiane esportatrici, evidenzia il rapporto, il peso del mercato russo è pari a circa 7 miliardi di euro, lo 0,8% dei ricavi complessivi (905 miliardi). Una quota tutto sommato contenuta, ma che assume maggiore rilevanza se vista in ottica relativa: in un settore come quello tessile, per esempio, l’export verso la Russia vale 1,2 miliardi. Quasi il 2% delle aziende del comparto potrebbe essere costrette a chiudere i battenti: tradotto in valore assoluto, più di 340 imprese e oltre 6mila posti di lavoro. E anche restringendo l’orizzonte rispetto al vastissimo mondo delle pmi, nemmeno i grandi gruppi industriali quotati a Piazza Affari sono del tutto immuni dal conto della guerra. Quello di Maire Tecnimont è il caso più emblematico, visto che il 17% del portafoglio ordini della società, stando al bilancio consolidato del 2021, si riferisce alla Russia. Da inizio anno la società a Piazza Affari ha perso oltre un terzo della sua capitalizzazione.

I casi fin qui elencati hanno peraltro considerato solo quelle aziende che in un modo o nell’altro hanno un’esposizione diretta al mercato di Mosca, escluse banche e società finanziarie, che fanno discorso a sé. Ma la guerra ha un effetto domino su tutta una serie di dinamiche, dall’energia alle catene di fornitura alle materie prime, che non possono essere ignorate per valutare l’impatto finale del conflitto sull’economia e sulle imprese.

La guerra in Ucraina sta sconvolgendo l’intero quadro macroeconomico. Secondo le previsioni elaborate dal Cerved in un report già anticipato da MF-Milano Finanza, nello scenario base quest’anno la produzione italiana recupera buona parte delle perdite del 2020 e la ripresa procede anche se a ritmi più lenti rispetto a quanto previsto solo pochi mesi fa. Ma nello scenario peggiore la situazione cambia: le incertezze legate al conflitto in corso prendono il sopravvento insieme alle tensioni sui prezzi delle materie prime e di conseguenza si riduce la crescita attesa complessiva. Rispetto allo scenario base la crescita del pil reale nel 2022 passa da un +3% a un +2,3% e i consumi reali attesi scendono da un +2,8% a un +2,4%.

Nello scenario peggiore le esportazioni perdono soltanto lo 0,1% di crescita (da +4,2% a +4,1%), ma il colpo per la produzione industriale reale è decisamente più pesante, con la stima che scende da un +2,7% a un +1,7%.Secondo l’analisi del Cerved l’impatto della guerra sul fatturato delle imprese italiane rischia di essere pesante. Le nuove previsioni dopo lo scoppio del conflitto vedono per il 2022 il tasso di crescita dei ricavi in termini reali frenare al 3,2%, ovvero quasi tre punti percentuali in meno rispetto alle stime pre-guerra (5,9%), mentre nel 2023 dovrebbe attestarsi al 2,2% con un recupero dei livelli pre-Covid posticipato soltanto alla fine del 2023 (+1,4% rispetto al 2019) e di entità molto inferiore rispetto alle previsioni pre-guerra. Ma c’è uno scenario ancora peggiore, quello nel quale la guerra continui per molto tempo e gli effetti dei rincari sull’inflazione diventino strutturali. In questo caso il fatturato delle imprese italiane vedrebbe il proprio tasso di crescita eroso ancor di più, con un +2,5% per il 2022 e un +1,6% nel 2023, con valori di fatturato nel 2023 analoghi al pre-Covid. La crescita dei ricavi delle imprese italiane può uscire più che dimezzata dalle conseguenze del conflitto.

Un altro shock dopo la pandemia, il cui impatto, oltre a essere molto eterogeneo, può essere più forte proprio su alcuni di quei settori che già erano stati colpiti duramente dal Covid. Cerved ha elaborato una stima dettagliata degli effetti sui vari comparti e ne emerge che a soffrire di più saranno i settori per i quali era attesa una più forte ripresa nel 2022. Per i trasporti aerei il delta tra le previsioni pre-guerra di crescita del fatturato del biennio 2021-2023 e quelle post è di quasi il 34% (-33,8%), ma è il turismo in generale a essere più penalizzato. Per agenzie di viaggi e tour operator si prevede una differenza del 28% rispetto alle stime di crescita calcolate prima del conflitto. In difficoltà anche fiere e convegni, con una differenza del 16% e aeroporti (-13,8%) e alberghi (-11,4%). (riproduzione riservata)
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