di Marco Capponi
Il suo amministratore delegato Alessandro Melzi d’Eril sulle colonne di MF-Milano Finanza l’ha definita «un gioiellino nel mercato del risparmio gestito». E proprio intorno a questo piccolo scrigno da 1,5 miliardi di euro di capitalizzazione che è Anima Holding potrebbe aprirsi un nuovo capitolo del risiko bancario, in cui sarebbero coinvolti gli attori ormai noti delle grandi partite degli ultimi mesi. Un banco di prova per le grandi operazioni sistemiche ma non solo, visto che Anima è interessante sotto molti punti di vista: ha da poco chiuso il primo trimestre con commissione di gestione in crescita del 7% a 73,5 milioni e tra gennaio e aprile, pur in un contesto di mercato particolarmente sfidante, ha raccolto tra fondi e gestioni individuali 1,1 miliardi. L’utile netto, sceso a 30,3 milioni (-47% annuo ma in linea col consenso) ha risentito molto delle commissioni di performance pressoché azzerate da un effetto mercato negativo. In borsa il titolo non ha sofferto, tanto che da inizio anno perde meno del 3%, molto meglio dell’indice di riferimento. Il management ha promesso ai soci che verrà distribuito almeno il 50% dell’utile e non ha escluso un nuovo piano di buyback. E il titolo è ancora a forte sconto, con un p/e atteso per il 2022 pari a 8,82. Numeri che confermano come il modello di Anima faccia gola, e questo nonostante la società sia una fabbrica di prodotti di risparmio gestito priva di una sua rete (tra gli accordi di distribuzione più importanti, impossibile non citare quello con Mps e con le Poste).

E qui parte il gioco delle ipotesi. Il primo protagonista della storia è Francesco Gaetano Caltagirone, che secondo le più recenti comunicazioni rilevanti della Consob è salito, lo scorso 28 aprile (il giorno prima della sconfitta per la governance di Generali), al 3,192% della holding, in cui era entrato nell’aprile del 2020. Una mossa che è stata seguita, dopo l’esito del voto delle Generali, dall’ascesa al 5,5% di Mediobanca, mossa che porterebbe il costruttore romano a un passo dalla soglia d’opa insieme a Leonardo Del Vecchio qualora fosse accertato un concerto o se i due decidessero di muovere effettivamente assieme sulla merchant. Un nesso diretto tra le due operazioni non c’è, ma cinque giorni dopo, il 3 maggio, la banca multicanale di Piazzetta Cuccia, CheBanca!, ha annunciato la nomina a presidente di Marco Carreri, ex storico a.d. proprio di Anima. Una coincidenza forse destinata a rimanere tale (lo stesso Melzi d’Eril è stato chiaro sul punto), anche se la suggestione è inevitabile. Mediobanca vuole crescere nel gestito, e aggiungendo ai suoi 12,5 miliardi di masse tra fondi aperti e gestioni di patrimonio (dati Assogestioni di marzo) i 196,6 miliardi di Anima arriverebbe a quota 209 miliardi, l’8,6% del patrimonio dell’industria. Se Caltagirone e Del Vecchio dovessero lanciare l’opa si troverebbero in mano, fallita l’operazione Generali, il quarto player del risparmio gestito italiano (anche se con una rete più esigua), con l’opzione, unendo la potenza di fuoco delle due realtà, di lanciare la sfida ai quasi 230 miliardi della francese Amundi, che detiene il 9,5% del patrimonio.

Proprio Amundi, o meglio la sua prima azionista, il Crédit Agricole (che ha quasi il 70% delle quote dell’asset manager transalpino), è la seconda protagonista della partita. La storia non è nuova: l’Agricole lo scorso 8 aprile ha annunciato di essere salito al 9,18% di Banco Bpm, che a sua volta è primo socio di Anima (20,6%). In quell’occasione il Banco ha vissuto un rally di borsa a doppia cifra (+10,2%). Le azioni di Anima, di riflesso, sono salite di quasi l’8%.

Lato risparmio gestito, le possibili nozze tra Bpm e Agricole potrebbero avere il contraltare in un altro matrimonio, quello tra la stessa Anima e Amundi. Una tesi avallata anche dagli analisti di Bank of America, che hanno citato la convenienza strategica per l’asset manager francese: in questo modo «aggiungerebbe risorse, scala e distribuzione in Italia, un Paese attraente perché la penetrazione dei fondi è relativamente bassa» rispetto ad altre nazioni europee. Se il deal dovesse andare in porto (BofA stima per Anima un valore di 1,9 miliardi), Amundi aumenterebbe del 10% le masse totali e raddoppierebbe quelle italiane. Si tratterebbe di fatto dell’unione tra il terzo e il quarto player dell’industria del gestito nazionale: insieme Anima e Amundi arriverebbero intorno a 430 miliardi, oltre il 17,5% del mercato totale. E lancerebbero la sfida al secondo in classifica, che con i suoi 490 miliardi possiede il 20% del mercato: Generali. Alla fine della storia, tutte le strade portano sempre a Trieste. (riproduzione riservata)

Fonte: