di Angelo De MattiaMilano Finanza – Numero 100 pag. 14 del 22/05/2021

In alcuni importanti passaggi la vita delle ultrasecolari Generali si è intrecciata con quella della Banca d’Italia, la quale, fino alla dismissione in relazione all’acquisizione dei compiti di Vigilanza sulle imprese di assicurazione con la comunione degli organi di vertice con l’Ivass, era il secondo socio della compagnia triestina con il 5% circa. Il potenziale conflitto di interesse imponeva lo smobilizzo. Quella che già negli anni 80 veniva definita come l’unica multinazionale italiana era stata comunque oggetto di una doverosa attenzione da parte della banca centrale. In essa erano investite le risorse del trattamento di quiescenza del personale di quest’ultima. Già era accaduto che la Banca d’Italia di Antonio Fazio aveva manifestato il sostegno ad alcuni istituti di credito – in particolare, Unicredit e Banca di Roma-Capitalia – e fondazioni che erano intervenuti a difesa dell’autonomia del Leone in presenza di una manovra di stampo francese ma con convergenze nazionali. Lo scopo era la protezione delle predette risorse e la tutela dell’indipendenza di un intermediario con competenze anche finanziarie oltre che assicurative. Sulle prime, le cronache riportarono le dichiarazioni dei soliti presunti «cervelloni» che dissentivano dall’intervento di Palazzo Koch. Poi però diverse critiche si trasformarono in appoggi.

Un caso più eclatante si ebbe allorché si decise di sostituire il presidente delle Generali Alfonso Desiata, in carica solo da pochissimo tempo. Desiata era noto per le straordinarie competenza ed esperienza nel settore, ma anche per un’eccezionale cultura classica e scientifica (era laureato in Fisica). Riscuoteva un indiscusso apprezzamento da parte di Bankitalia. All’epoca vigeva la norma statutaria della durata della carica del presidente di un solo anno; un modo per tenere sotto stretto controllo chi era al vertice. Nel caso di Desiata la cosa era impossibile per l’indipendenza intellettuale e per il prestigio del personaggio. Quando si seppe della progettazione dell’avvicendamento l’allora governatore Fazio fece conoscere il proprio netto dissenso. In risposta il compianto amministratore delegato di Mediobanca – la partecipante di maggioranza relativa delle Generali – ribadì il «non possumus» e si arrivò all’assemblea che poi sancì la sostituzione. Per Palazzo Koch si trattava di una scelta che toccava più in generale la governance della compagnia e si riteneva inaccettabile un avvicendamento immotivato o, forse, con motivazioni che potevano trasparire ma che non erano affatto condivisibili. In relazione a ciò e a quanto alla scelta era sotteso in occasione dell’assemblea che con il voto sul bilancio sanciva pure l’avvicendamento la Banca d’Italia espresse un wargomentato voto di astensione. La decisione, straordinaria e con un chiaro effetto-annuncio, fece molto rumore. Anche in questo caso alle critiche iniziali fecero seguito decise condivisioni.

In generale, una diffusa attenzione alle Generali e alle sue vicende non è mai venuta meno, anche dopo la dismissione della partecipazione di Bankitalia (ma con la contemporanea introduzione, come accennato, del controllo dell’Ivass). Prima, chi scrive ha avuto modo di seguire la presidenza di Cesare Geronzi. Il noto banchiere, di scuola Banca d’Italia, arrivava a Trieste forte di una solida esperienza e capacità, con intenti di rinnovamento, rafforzamento e rilancio. Conosceva dall’esterno la compagnia anche come presidente, in precedenza, di Mediobanca. Le prime decisioni che promosse diedero il segnale di un cambio di passo. Fu costituito un comitato investimenti in cui si dovevano decidere o proporre per il cda le scelte di impiego dei fondi sulla base di analisi approfondite, superando così le vigenti, estese deleghe per uno dei due amministratori delegati. La formazione di quest’organo richiese molto tempo, a testimonianza del primo scossone che la nuova presidenza provocava in nome della trasparenza e di un migliore funzionamento della governance. Si stabilì che le riunioni del cda fossero sempre precedute dall’esame della documentazione da sottoporre all’organo in riunioni cui partecipavano il presidente, i due amministratori delegati e il direttore generale. Si cominciò a concentrare l’attenzione sulle procedure di lavoro, sulle competenze delle strutture e sulle relazioni tra loro, sul rapporto con le Generali insediate all’estero (mentre il presidente iniziava visite nei diversi Paesi). In presenza di un personale di prim’ordine, era possibile compiere molti progressi nell’efficienza e nella tempestività decisionale. Fu dato incarico a una nota società di consulenza di analizzare il funzionamento delle strutture in Italia e all’estero e, in un processo dialettico con il vertice del Leone, prospettare le possibili innovazioni e riforme. Intanto veniva ristrutturata e rilanciata la connessa Fondazione per il sostegno di iniziative socialmente valide che fino allora era stata pressoché quiescente. Oggi questo ente ha ulteriormente espanso la propria operatività. Non si trascurava altresì l’esame di casi pregressi ma ancora pesanti per la compagnia, come il rapporto con un noto soggetto estero, di recente scomparso, poi regolarizzato quando Geronzi non era più presidente, ma secondo le linee che egli aveva sostenuto per tempo. Che i «vecchi tempi» fossero archiviati fu chiaro quando Geronzi decise che alle richieste presentate agli amministratori delegati e al presidente da parte di azionisti e consiglieri di amministrazione sarebbe stata data risposta nel cda, dunque in sede collegiale a tutti i componenti dell’organo. Alla base della decisione vi era l’espressa norma del codice civile. Si trattò del «casus belli», non evidente ma sostanziale. A questo punto cresceva l’insofferenza per un’azione di questo tipo, della quale facevano parte diverse altre misure, a cominciare da quelle relative a un rapporto non chiaro, almeno inizialmente, con un intermediario russo di cui Geronzi parla anche nel dialogo con Massimo Mucchetti nel libro Confiteor. Molto ancora può concorrere a spiegare perché l’ex presidente di Capitalia alla fine, per sottrarsi a contrasti nella compagine azionaria, preferì rassegnare le dimissioni. Ma oggi quasi tutto ciò che egli aveva osservato, proposto o modificato risulta attuato o confermato.

Il Leone ha le potenzialità per un rilancio e per competere ad armi pari con Allianz e Axa. Si deve incidere sulla governance. Sbandierare la cittadinanza italiana riconosciuta al ceo Philippe Donnet, pur trattandosi di un atto importante, può risultare infelice e di non proprio buon gusto. Sono i fatti che fanno esprimere i giudizi sui manager e sugli esponenti di vertice. E in questi fatti vi è pure l’esigenza, rappresentata da almeno 15 anni, di un aumento di capitale. A quando? (riproduzione riservata)

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