di Roberto Sommella
Capaci, ostinati, silenziosi. Da buoni ex studenti gesuiti, Alberto Nagel e Mario Draghi hanno trovato il modo di vedersi appena l’ex banchiere centrale è diventato presidente del Consiglio ma senza farlo a sapere a nessuno. Il ceo di Mediobanca ha così varcato la soglia di palazzo Chigi per un colloquio amichevole. Tra i temi trattati, la complessa maggioranza di governo (Draghi anche in privato mostra molta sicurezza) e l’evoluzione della situazione nel salotto buono della finanza. E tutto quanto ruota attorno alle prospettive del Paese, al Recovery Plan, alla capacità di resilienza del sistema industriale. Ma non si sbaglierebbe a pensare che al centro della chiacchierata a quattr’occhi ci sia stato soprattutto il risiko bancario, le complessità che esso comporta, dovendo necessariamente portare a una semplificazione dell’assetto attuale con tre soli grandi poli, a partire da Intesa e Unicredit.

Il nodo di tutto non è solo il blitz della Unipol di Carlo Cimbri sulla Popolare di Sondrio, quanto il destino della privatizzazione del Monte dei Paschi di Siena, che il premier non considera al momento una priorità e che dunque resta in stand by, come l’amministratore delegato di Gae Aulenti, Andrea Orcel, ha capito ampiamente prendendosi il tempo che serve per valutare il merger. Draghi non ha ancora affrontato il tema Mps perché ha da completare la campagna di vaccinazioni, mettere a terra le risorse del Next Generation Eu e completare l’assetto della sua cabina di comando che giorno per giorno prende forma. E’ invece molto probabile però che l’inquilino di palazzo Chigi conosca per grandi linee quale percorso intende percorrere la banca d’affari per mettere un po’ di pace tra piazzetta Cuccia e i due imprenditori Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone, che su Mediobanca (dove il primo è il principale azionista) e Generali (dove il secondo ha puntato i piedi sul bilancio) hanno avviato una forte tensione.

La parola chiave che viene ripetuta come un mantra dietro alla Scala non a caso è proprio «distensione». Una pace milanese che passerà attraverso quattro punti cardinali. Il primo è legato alla crescita interna ed esterna di Generali, che dovrà avvenire nei prossimi tre-cinque anni facendo acquisizioni all’estero (più Europa e Cina che India); il secondo è il rafforzamento dell’asset management, il terzo impone un arricchimento della fabbrica prodotti che sconta il flop della digitalizzazione dei contratti assicurativi più sofisticati. Il quarto e ultimo punto è giungere a posizioni condivise all’interno del cda del Leone, soprattutto considerando l’importante quota detenuta da investitori istituzionali. Solo alla fine di questo percorso, che Nagel spera possa mettere d’accordo i riottosi Del Vecchio e Caltagirone, si esamineranno i profili degli eventuali successori di Philippe Donnet, il ceo di Generali, da tempo sotto attacco ma che nutre la fiducia del suo azionista bancario. Risolti questi nodi la palla tornerà nella contesa in Mediobanca dove un po’ tutti credono invece che la pace necessiterà di maggiori sforzi. E di tempo. (riproduzione riservata)

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