L’uscita di Fininvest è solo l’ultimo scossone agli assetti della merchant bank, dove però i primi stakeholder restano i fondi La scadenza del patto e le opzioni per sciogliere l’intreccio con Generali
di Luca Gualtieri

Decidere di volta in volta sul comportamento da tenere concordemente in ogni assemblea ordinaria e straordinaria della società. Con queste finalità 66 anni fa nasceva uno dei club più esclusivi della finanza italiana, che proprio in questi giorni è rispuntato nelle cronache. Tappa decisiva nella guerra d’indipendenza che Enrico Cuccia ha combattuto contro l’Iri e la politica romana, il patto di sindacato di Mediobanca è stato anche una delle istituzioni più longeve della city milanese. Chi non ne faceva parte contava come il due di picche, chiosa Giancarlo Galli nella sua biografia dello gnomo di via Filodrammatici. Nato nel 1955 con le tre Bin e alcune importanti istituzioni internazionali come la Lazard, la Lehman Brothers e la Berliner Handels Gesellschaf, il patto è sceso poi verso il 50% con la cosiddetta privatizzazione del 1988. Solo dopo la morte di Cuccia e la defenestrazione del delfino Vincenzo Maranghi però il mercato è riuscito a conquistare la maggioranza della banca, anche grazie all’uscita dal capitale della Fiat di Sergio Marchionne, della Telecom e del gruppo Dassault. Un’evoluzione accompagnata, anzi assecondata dalla nuova dirigenza, a partire dal ceo Alberto Nagel e dal presidente Renato Pagliaro, che nell’ultimo decennio hanno impresso una svolta storica all’istituto.

La pars destruens di questa normalizzazione è stato il piano industriale 2014-2016 con il quale Mediobanca ha liquidato gran parte delle partecipazioni societarie, conservando solo quel 13% di Generali da cui deriva ancora una significativa quota di profitti. Nel triennio successivo Nagel si è invece concentrato sulla pars construens della strategia, cioé una progressiva diversificazione delle fonti di ricavo per aumentare i profitti e ridurre il profilo di rischio. Abbandonato l’assetto di holding, insomma, l’obiettivo è stato stabilizzare le commissioni, agganciandole ad attività tradizionalmente meno volatili dell’investment banking. E il patto? Il legame tra Mediobanca e i suoi azionisti storici si è progressivamente allentato e nel 2018, dopo il passo indietro della Financiere du Perguet di Vincent Bolloré e della Italmobiliare della famiglia Pesenti, la governance è stata rivisitata. Al posto del vecchio sindacato è nato un accordo di consultazione dai vincoli assai meno stringenti. L’intesa consentiva infatti agli aderenti di vendere e acquistare azioni senza preventiva autorizzazione. Un modo per avere le mani libere e movimentare le quote in assenza dei vincoli del passato. Tant’è che non sono mancate defezioni eccellenti come quella di Unicredit che, dopo aver incoraggiato il nuovo accordo, nell’autunno del 2019 ha ceduto sul mercato il suo 8,4%.
L’uscita di piazza Gae Aulenti avrebbe potuto rimuovere l’ultimo scomodo intreccio e normalizzare definitivamente la governance di Mediobanca. Tanto più che il ridimensionamento degli azionisti storici e la larghissima presenza di investitori istituzionali rendevano ormai l’istituto di piazzetta Cuccia qualcosa di molto simile a una public company. Sennonché l’ingresso di Leonardo Del Vecchio ha cambiato le carte in tavola. Dopo il blitz del settembre 2019 Mister Luxottica si è progressivamente portato al 15,2% con in tasca un autorizzazione della Bce per salire al 20%. L’ultimo passaggio di quote risale a lunedì 17, quando Delfin si è aggiudicata il 2% messo sul mercato da un altro socio storico e membro del patto, la Fininvest della famiglia Berlusconi. C’è peraltro chi scommette che nel mirino ci sia già il 2% rimasto in mano a Bolloré dopo le vendite degli ultimi anni. Con quel pacchetto di azioni tra Del Vecchio e i pattisti si creerebbe un distacco di quasi sette punti percentuali. Senza contare che nel frattempo è entrato nel capitale anche Francesco Gaetano Caltagirone che nei mesi scorsi si è messo in tasca una quota di poco superiore all’1%. E il patto? Con l’uscita di Fininvest oggi si attesta al 10,6% ed è incardinato sui Doris che hanno in mano circa il 3% del capitale e che, così come i Benetton, non sembrano intenzionati a vendere. Tra gli altri aderenti rimangono i Gavio (0,66%), i Ferrero (0,64%), i Pecci (0,52%), gli Angelini (0,45%), i Lucchini (0,38%), i Seragnoli (0,22%), gli Acutis (0,14%) e Romano Minozzi (0,1%). Anche se è presto per fare previsioni, qualche socio ipotizza che alla scadenza di fine anno l’accordo potrebbe essere smontato.

Se gli assetti proprietari di Piazzetta Cuccia risultano in profonda evoluzione, occorre ricordare che i nuovi inquilini si sono mossi sinora con grande circospezione. A partire da Del Vecchio. Non solo perché la Bce e il mercato non gradirebbero schermaglie tra il primo socio e il board ma anche perché, sin dall’inizio, Mister Luxottica ha scelto di presentarsi come investitore puramente finanziario. Coerentemente con questa scelta all’assemblea di rinnovo del cda dell’ottobre scorso, Delfin ha appoggiato la lista di Assogestioni astenendosi da operazioni di disturbo nei confronti del vertice. La tregua è destinata a durare? Si vedrà. Certamente le frizioni non mancano, soprattutto sul fronte delle Generali di cui sia Del Vecchio che Caltagirone sono azionisti storici. I due imprenditori vogliono dare una scossa alla compagnia e, pur con toni diversi, lo hanno già fatto capire al mercato e a Mediobanca. Se Caltagirone spinge per un assetto più plurale della governance, Del Vecchio ha un disegno strategico in mente: «Riportare Generali al ruolo di leader che aveva nel mercato europeo alla fine degli anni 90 e che poi ha perso», come ha dichiarato qualche mese fa. A Trieste si andrà dunque allo scontro? Non è detto, anche perché Mediobanca avrà un approccio laico alla partita avendo cura di preservare l’autonomia del board e la trasparenza della governance. Ma soprattutto non è detto che Piazzetta Cuccia voglia conservare ad ogni costo lo storico legame con Trieste. In più di un’occasione il vertice della merchant (che pure ha 1,1 miliardi di capitale in eccesso) si è detto disponibile a liquidare parte della quota per finanziare acquisizioni. Un’alternativa è stata invece suggerita da un recente report di Bank of America-Merrill Lynch: Mediobanca potrebbe distribuire 3,6 miliardi di euro in azioni Generali agli azionisti.

Suggestioni da dealing dove non si esclude che il distacco tra Milano e Trieste possa avvenire anche attraverso un’operazione di m&a. Se per esempio – ipotizza qualche analista – l’ Unicredit di Andrea Orcel decidesse di muovere sulle Generali per creare un polo bancassicurativo di respiro europeo, Mediobanca potrebbe scambiare il proprio 13% nella compagnia per una controllata di assoluto pregio come Banca Generali. Fantasie? Si vedrà. Di certo qualunque strategia dovrà fare i conti con quello che oggi rimane il socio di maggioranza della merchant, il mercato. Con la progressiva erosione del vecchio sindacato, gli investitori istituzionali hanno incrementato il proprio peso e potrebbero non gradire scelte poco conformi alle policy internazionali e, soprattutto, poco remunerative. È risaputo che Cuccia fosse alquanto refrattario alle ragioni del mercato. Sul tema c’è dovizia di cronache e aneddoti, come quello su un Carlo Pesenti particolarmente preoccupato dei ribassi borsistici: «Lasci perdere, perché vuole arricchire i suoi azionisti?», lo avrebbe redarguito il banchiere, che anteponeva le logiche del capitalismo di relazione al consenso degli investitori. I tempi però sono cambiati e indietro non si torna. (riproduzione riservata)

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