Negli ultimi dieci anni meno di un terzo delle aggregazioni tra banche ha creato valore. E un deal su quattro è stato un flop. Oggi però i benefici in termini di costi e di ricavi possono rivelarsi molto più elevati
di Luca Gualtieri

Una cosa sembra assodata. Dopo l’integrazione tra Intesa Sanpaolo e Ubi Banca e il successo dell’offerta pubblica del Crédit Agricole sul Credito Valtellinese il consolidamento bancario italiano non si fermerà. Ne sono convinti banker, consulenti e analisti finanziari che da mesi ormai sono al lavoro per individuare le combinazioni più convincenti. Gli stessi ceo non fanno un mistero delle proprie intenzioni. Se l’amministratore delegato di Banco Bpm Giuseppe Castagna ha recentemente rilanciato l’idea di un terzo polo per il credito tricolore, il nuovo numero uno di Unicredit Andrea Orcel si è soffermato proprio sul tema del m&a nella sua prima uscita pubblica: «Il m&a non è un obiettivo in sé e per sé, ma è qualcosa che vedo come un acceleratore e come un fattore che può migliorare i nostri risultati strategici laddove soddisfa il migliore interesse degli azionisti», ha puntualizzato Orcel. Se insomma le aspettative di intermediari e investitori sono alte, vero è che oggi costruire un deal nel settore dei servizi finanziari richiede un approccio molto diverso rispetto a qualche anno fa. Ne sono convinti i consulenti di EY che, in un report di recente pubblicazione, si sono focalizzati proprio sul cambio di paradigma che le banche dovranno affrontare nell’imminente giro di valzer e sulle opportunità che potrebbero cogliere. Prima di tutto un dato di fatto: meno di un terzo delle fusioni degli ultimi 10 anni ha creato un valore significativo per gli azionisti e circa una fusione su quattro ha determinato un disvalore rilevante. Di esempi virtuosi e meno sono piene le cronache finanziarie. Eppure, secondo EY, le recenti operazioni di consolidamento possono ottenere sinergie di costo e di ricavo molto più elevate che in passato; a titolo esemplificativo, la fusione Intesa-Ubi ha l’ambizione di raggiungere il 38% di sinergie di costo e l’11% di ricavo, quasi il doppio della maggior parte delle fusioni avvenute tra il 2000 e il 2015. «L’inevitabile processo di consolidamento bancario è un’occasione unica per accelerare la trasformazione e la reinvenzione dei modelli di business. Riteniamo che la creazione di valore possa essere molto superiore ai benchmarks tradizionali del mercato m&a», spiega Erberto Viazzo, EY Financial Services Strategy and Transactions Leader.
Come si spiega questo maggiore impatto delle sinergie? In termini generali oggi rispetto al passato un istituto può manovrare un numero maggiore di leve per estrarre valore da un deal. Iniziamo dalle sinergie di costo. Le principali possono derivare da specifici ambiti operativi (third party management, cyber risk management, tasse o bancassurance), anche grazie all’esternalizzazione di intere aree di operatività, oggi realizzabile in tempi rapidissimi grazie allo sviluppo di nuove tecnologie. Oppure dal consolidamento dei volumi in capo a pochi fornitori chiave, sia in ambito IT che per quanto riguarda le partnership commerciali o i fornitori di linee di business. Per quanto riguarda invece le sinergie di ricavo, se da un lato la maggiore scala permette lo sviluppo di nuovi ecosistemi di offerta e la conseguente erogazione di prodotti e servizi finanziari e non finanziari, dall’altro lato grazie alle tecnologie big data e applied analytics l’integrazione delle basi clienti dei due istituti (specie se in zone geografiche attigue), determina lo sviluppo di nuove filiere e nuove catene del valore, ad esempio considerando che i clienti di una banca possono essere legati da rapporti commerciali con i clienti dell’altra banca, e la possibilità per la nuova entità bancaria di sviluppare servizi ad hoc. «Sul piano dei ricavi molto si può fare rispetto al passato con lo sviluppo di nuovi ecosistemi di offerta e grazie alle tecnologie di applied analytics», commenta Fabio Piccinini, EY financial services strategy leader.
Per raggiungere questi obiettivi, secondo EY, occorre però un nuovo approccio al processo di integrazione. Il fulcro deve infatti essere una gestione sistematica dei molteplici cantieri e degli attori coinvolti con l’obiettivo di prevenire e risolvere le criticità. Questa attività si svolgerà a stretto contatto con il ceo e con il top management prevedendo il continuo adattamento del programma di integrazione. Questo nuovo approccio (che EY chiama journey management) prevede un rigoroso controllo delle sinergie (in particolare quelle di ricavo, che sono molto complesse da monitorare) e dei risultati finanziari delle due realtà, uno sforzo volto a garantire il regolare svolgimento delle attività ordinarie e il monitoraggio costante dei rischi di integrazione affinché non compromettano il rapporto con la clientela. Ma per gli esperti di EY una meticolosa gestione dei cantieri non sarà sufficiente. Per condurre in porto l’integrazione il top management dovrà da un lato lavorare intensamente sui dipendenti per creare una cultura aziendale omogenea e dall’altro definire il modello operativo e strategico verso cui tendere. Proprio quest’ultimo obiettivo appariva assai più sfumato in molti deal del passato in cui l’attenzione dei ceo era assai più concentrata sull’estrazione immediata di sinergie che sulla strategia di lungo termine. Per EY però oggi un differente approccio rappresenta la condizione necessaria per moltiplicare le sinergie di ricavo e di costo. Le banche italiane sono pronte per questo impegnativo cambio di paradigma? Si vedrà. In molti però scommettono che, se i ceo sapranno coglierle, le opportunità di questa nuova stagione di consolidamento potrebbero rivelarsi molto ghiotte. (riproduzione riservata)

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