di Emerick De Narda
La futura generazione di trader arriverà sul mercato con un’educazione finanziaria maggiore rispetto a quelle precedenti. Questo non significa che le statistiche di chi vince e chi perde in borsa miglioreranno, ma le premesse sono positive. I risultati sullo stato di alfabetizzazione finanziaria delle giovani leve sono scaturiti da una ricerca a firma Eleonora Isaia e Massimo Giorgini, professori di economia degli intermediari finanziari presso il dipartimento di Management dell’Università degli Studi di Torino. La ricerca è una delle più approfondite che siano state fatte sull’argomento considerato che si è sviluppata mediante un sondaggio tra un campione di 1.570 individui, divisi tra Millennials (nati tra il 1981 e il 1996) e Gen-Z (nati tra il 1997 e il 2010), ai quali è stato chiesto di rispondere ad oltre 50 domande. In particolare, la Gen-Z ha rappresentato il 60% degli intervistati, con un’età media di 22 anni mentre il restante 40%, rappresentato dai Millennials, ha un’età media di 26 anni.

Il livello di educazione finanziaria è stato testato attraverso tre domande: la relazione tra prezzo e rendimento di un titolo obbligazionario; la relazione tra prezzo di un titolo azionario e lo stacco di un dividendo da parte del relativo emittente; l’importanza della diversificazione con riferimento alla gestione del portafoglio.

Si scopre così che il 46% degli intervistati conosce concetti di base come l’effetto della modifica dei tassi d’interesse sui prezzi delle obbligazioni o l’effetto del pagamento dei dividendi sul prezzo delle azioni il giorno dello stacco cedola. Il 70% è consapevole dell’importanza di allocare le proprie risorse finanziarie diversificando il rischio di portafoglio. «Questo risultato», specifica Massimo Giorgini, «sorprende rispetto alle precedenti evidenze in letteratura ma è coerente con la composizione del campione».

Il campione si caratterizza per un livello di avversione al rischio moderato: il 63% afferma infatti di essere disponibile ad assumere una limitata quota di rischio in funzione di un maggior rendimento, mentre l’8% degli intervistati si dichiara decisamente avverso al rischio a prescindere dal potenziale rendimento. Ma in quale sede i soggetti hanno avuto maggior contribuito alla loro formazione finanziaria di base? Il 59% degli intervistati ha dichiarato di aver appreso concetti quali risparmio, investimento e finanziamento in modo autonomo, il 50% all’università, il 31% attraverso genitori, parenti o amici e solo l’11% in banca o presso un consulente finanziario. Da evidenziare che oltre la metà del campione si definisce autodidatta, con potenziali effettivi distorsivi sulle scelte che ne derivano. «Oltre a rafforzare il ruolo della scuola», specifica la professoressa Isaia, «è auspicabile che anche gli intermediari finanziari possano contribuire ad accompagnare i loro clienti in percorsi di formazione mirati, a beneficio della reciproca comprensione e fiducia».

Il sondaggio si è poi sviluppato lungo la direttrice degli investimenti, ma per fare questo i relatori hanno preferito suddividere gli intervistati in ulteriori due categorie: con esperienza di investimento, e senza esperienza d’investimento. Per quelli con esperienza, da un punto di vista di asset class, il primo strumento acquistato è stato nel 27% dei casi uno strumento azionario, nel 24% dei casi un fondo comune di investimento oppure un Etf, nel 10% dei casi un’obbligazione e nell’8% dei casi una polizza assicurativa. «Il dato è di particolare interesse in quanto evidenzia un approccio piuttosto aggressivo, con esposizioni su asset class e strumenti generalmente più rischiosi come azioni e fondi di investimento», specifica Giorgini. Un fenomeno evidenziato anche in letteratura, a conferma del fatto che i Millennials sono più propensi a investire nel mercato azionario, con una maggiore frequenza, ma con minore esposizione in termini di controvalore. Il 66% degli intervistati si concentra su titoli di emittenti esteri, europei e americani, mentre il 34% su azioni italiane. Anche questa evidenza è in linea con la letteratura e l’esperienza di mercato più recente, laddove le generazioni più giovani risultano più inclini ad acquistare azioni di multinazionali a forte vocazione retail quali Amazon, Apple, Netflix e Tesla, privilegiando brand familiari del settore consumer discretionary. Interessante poi che nell’11% dei casi, il primo strumento finanziario acquistato è stata una criptovaluta (ad esempio, bitcoin), a testimonianza della crescente adozione di questi strumenti da parte degli investitori più giovani. L’investimento in criptovalute, tuttavia, non è assolutamente considerato come sostitutivo di altre forme di investimento, ma piuttosto complementare. Gli intervistati sono ben consapevoli dell’elevato rischio dello strumento, e solo il 28% degli intervistati considera questo prodotto di interesse per facilità di utilizzo e per la possibilità di ottenere un elevato rendimento nel breve periodo (12%), o perché ritiene che possa generare un rendimento superiore ad azioni e obbligazioni anche nel lungo periodo (16%).

Passando agli intervistati senza esperienza, il 43% prevede di poter iniziare a pianificare i propri investimenti entro 2 anni, il 33% tra 2 e 5 anni (arco temporale coerente con l’avvio dell’attività lavorativa), mentre il 12% non prevede di investire in quanto non interessato. Questa categoria conscia dei propri limiti tende a consultarsi all’interno della propria sfera sociale, riconoscendo però l’importanza della consulenza finanziaria da parte di professionisti e intermediari finanziari, per cui sarebbero anche disposti a pagare. (riproduzione riservata)

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