di Andrea Camporese*
C’è qualcuno che crede che il sistema di protezione sociale, cosiddetto welfare state, resterà lo stesso dopo il Covid-19? Beh, va avvertito che si tratterà di scelta obbligata non di balletto politico. Il Covid-19 non è stato altro che un acceleratore di un processo in corso, intravisto e negato per paura e opportunità, oggi obbligato. Era già crollato tutto. Oggi, sulle macerie, si fanno i conti. I milioni di lavoratori discontinui, professionisti a mille euro al mese, rider, borsisti, precari in senso ampio, non aspetteranno. Non si accontenteranno di dichiarazioni da Bruxelles e di 600 euro per fare la spesa. È cambiato il modello, il paradigma, è cambiato alcuni anni fa, ma si pensava che l’ammortizzatore sociale famigliare avrebbe compensato la crescita dei nuovi poveri fino al momento della transizione a nuovi piccoli borghesi. Non è avvenuto, e le generazioni future, incolpevoli, si approcciano a un tempo senza speranza. Dunque cassa integrazione ordinaria, in deroga, reddito di cittadinanza, reddito di ultima istanza, oggi, meritevolmente, rappresentano misure emergenziali non sostenibili nel futuro, anche quello prossimo, vogliamo dire fine anno? E dopo? Dopo viene la verità. L’idea che un laureato, figlio di famiglia normale piccolo borghese, abilitato da un esame di Stato, dovesse arrangiarsi in quanto privilegiato, ha fatto danni incalcolabili. La fatica, personale, i debiti, familiari, sono stati considerati effetti collaterali del sistema.

Il problema è che oggi i figli dei garantiti si candidano a una fase da generazione bruciata e prima o poi chiederanno il conto. Quasi 500 mila soggetti, appartenenti alle professioni cosiddette ordinistiche, hanno chiesto il sussidio di 600 euro. 500 mila persone, mediamente sotto i 40 anni, che non sanno come campare. A queste si aggiungono almeno il triplo di invisibili senza titolo. Fino a quando potrà lo Stato sostenere questo disastro? Fino a settembre? Fino a fine anno? Poi inizia, e non solo in Italia la terra di nessuno. Poche idee per cambiare radicalmente, ammesso si sia in tempo. Serve un modello di protezione sociale unico, indistinto, basato sul decremento dei redditi e sulla politica attiva di rioccupazione. Una sola voce, universale e condivisa che produrrà un abbassamento dei diritti del lavoro dipendente e una crescita di quello indipendente. A settembre, con la Finanziaria alle porte e una crisi sistemica senza precedenti, si dovrà decidere come cominciare a rientrare dall’enorme extra debito conseguito e alo stesso tempo dove allocare le, poche, risorse rimanenti. Sarà questo lo spartiacque, la linea politica, il messaggio ai futuri elettori. Il concetto di welfare allargato e integrato è l‘unica via d’uscita. Sostegno dall’inizio del lavoro all’entrata in pensione. Incrocio di sistemi assicurativi, protezioni statali, delle Casse previdenziale per i loro milioni di iscritti. Questi 600 milioni di euro spesi ogni anno dal sistema delle professioni previdenzialmente inquadrate possono esse esplosi a livello più ampio. Apertura di una attività, strumenti tecnici, banche dati, affitti, fusioni tra soggetti: tutto questo è oggi finanziato privatamente, non costituisce un modello per lo Stato? (riproduzione riservata)
*ex presidente Inpgi, Adepp

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