Pagine a cura di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti

Riaperture aziendali ad alto rischio: datori di lavoro in allarme perché temono pesanti sanzioni penali nel caso in cui un loro dipendente si ammali di Covid-19. E attenzione, perché a essere preoccupati non sono solo i negligenti, ma anche i datori «virtuosi» che abbiano puntualmente posto in essere tutte le misure necessarie per contrastare e contenere la diffusione del Covid-19 dettate dai protocolli di sicurezza del 14 marzo e del 24 aprile 2020: infatti, in caso di lavoratore contagiato, l’imprenditore rischia di trovarsi automaticamente intrappolato nelle insidiose morse di un procedimento penale. A evidenziarlo sono i Consulenti del lavoro, attraverso un approfondimento pubblicato il 12 maggio dalla Fondazione Studi che evidenzia l’opportunità di un scudo penale.
E se è indubbio che il rischio, come puntualizzato anche nei giorni scorsi dall’Inail, si risolverà in un’archiviazione laddove venga esclusa la responsabilità del datore, altrettanto sicuro è che quest’ultimo dovrà comunque passare per la spesso non celere fase delle indagini e magari anche per un provvedimento di sequestro.

La posizione di garanzia del datore. Quello degli obblighi di sicurezza che gravano sull’imprenditore e datore di lavoro è tema che è stato oggetto, negli ultimi anni, di una pluralità di interventi normativi con i quali il legislatore ha voluto fornire una garanzia al lavoratore da qualsiasi rischio inerente al luogo di lavoro.
Ciò comportava già, prima dell’emergenza Covid-19, oneri rigorosi e stringenti in capo al datore di lavoro, chiamato a dotarsi, a sue spese e a pena di incorrere in responsabilità (anche) di natura penale, dei necessari presidi di sicurezza nonché a provvedere, tra l’altro, all’adeguata formazione del personale.
L’attivazione delle imprese in tal senso trova il suo fondamento normativo sia nell’art. 2087 c.c. (Tutela delle condizioni di lavoro) che nel Testo unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (dlgs n. 81/2008). Ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro deve infatti «adottare nell’esercizio dell’impresa le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro», e dunque impedire non solo i rischi correlati alla concreta mansione svolta, ma tutti quelli per la salute e la sicurezza. Inoltre, il predetto T.u. esplicita l’obbligo di adottare tutte le misure atte a tutelare i propri dipendenti e collaboratori anche dal c.d. rischio biologico.

L’equiparazione di contagio e infortunio. Se dunque già sul datore incombe una posizione di garanzia, tale responsabilità nella attuale situazione assume connotati peculiari.
La diffusione del Covid-19 ha comportato infatti l’emanazione di svariati provvedimenti, tra cui merita primaria attenzione il dl n. 18/2020, convertito il legge 27/2020, più noto come decreto Cura Italia, che prevedendo espressamente all’art. 42 che «nei casi accertati di infezione da coronavirus in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail», individua e definisce il contagio sul lavoro come infortunio, con la conseguente responsabilità del datore di lavoro laddove sia imputabile al mancato rispetto da parte sua dei protocolli e delle misure di contenimento.
A tale proposito, in data 3 aprile 2020, l’Inail ha emanato una circolare, con la quale ha spiegato che la suddetta disposizione «chiarisce che la tutela assicurativa Inail, spettante nei casi di contrazione di malattie infettive e parassitarie negli ambienti di lavoro e/o nell’esercizio delle attività lavorative, opera anche nei casi di infezione da nuovo Coronavirus contratta in occasione di lavoro per tutti i lavoratori assicurati all’Inail». L’Istituto ha, pertanto, riconosciuto che «i casi di infezione da nuovo Coronavirus» sono da inquadrare nell’ambito delle «malattie infettive e parassitarie» e, come tali, riconducibili alla categoria degli «infortuni sul lavoro».

I protocolli di sicurezza e la sorveglianza sanitaria. A questo quadro si aggiungano i provvedimenti che, perseguendo l’obiettivo specifico di salvaguardare lo stato di salute dei lavoratori, richiamano i Protocolli condivisi in base ai quali il governo e le parti sociali hanno individuato le misure sanitarie e informative che i datori di lavoro devono adottare e i dipendenti rispettare, al fine di mettere in sicurezza, eliminare e prevenire il contagio nei luoghi di lavoro.
Così si è espresso il dpcm del 26 aprile scorso, che prevede testualmente che la mancata attuazione dei Protocolli, così da non assicurare adeguati livelli di protezione, determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.
Inoltre, il nuovo dl Rilancio, all’art. 88, impone, nel testo fin qui esaminato, ai datori di lavoro di garantire, per lo svolgimento in sicurezza delle attività produttive e commerciale, la sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio in ragione di determinati fattori, derivanti anche da patologia Covid-19. Per quei datori per i quali non è previsto l’obbligo di nominare il medico competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria, la sorveglianza sanitaria eccezionale (che ha origine dall’emergenza sanitaria Covid-19) può essere richiesta dal datore ai servizi territoriali dell’Inail che vi provvedono con propri medici del lavoro.

Le contravvenzioni previste dal T.u. Sicurezza. Altresì, con circolare del 2 maggio scorso, il ministero dell’interno ha precisato come il dpcm del 26 aprile, nel fare espressa menzione dei contenuti dei tre citati protocolli, attribuisce alle prescrizioni ivi previste la natura di misure di contenimento del contagio, con la conseguenza che la loro violazione comporta l’applicazione del sistema sanzionatorio previsto dal dl n. 19/2020, che prevede sanzioni amministrative pecuniarie e accessorie, salvo che il fatto contestato costituisca reato.
La verifica dell’eventuale sussistenza degli estremi di un illecito penale dovrà fare riferimento al quadro normativo in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro delineato dal dlgs n. 81/2008.
La colpa specifica del datore potrebbe quindi essere individuata nella mancata osservanza delle disposizioni del dlgs n. 81/08, quali l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi derivanti dall’esposizione agli agenti biologici presenti nell’ambiente; di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il Rspp e il medico competente; di richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme e delle disposizioni aziendali in materia di salute, sicurezza e igiene sul lavoro, nonché l’uso dei mezzi di protezione a loro disposizione; e ancora di informare i lavoratori dei rischi e delle disposizioni adottate.
La violazione dei suddetti doveri integra già di per sé, e quindi a prescindere dal contagio del lavoratore, plurime fattispecie contravvenzionali punite con la pena dell’arresto o dell’ammenda, con la conseguenza di ripercussioni economiche consistenti.

I reati di lesioni e omicidio colposi. Inoltre, in caso di contagio da Covid-19 di un dipendente, da cui ne derivi la malattia o addirittura la morte, il datore di lavoro potrebbe incorrere nella responsabilità penale per i reati di lesioni personali gravi-gravissime (art. 590 c.p.) o di omicidio colposo (589 c.p.), aggravati dalla violazione delle norme antinfortunistiche, con pene che nel caso di decesso del lavoratore toccano i sette anni di reclusione.
Ancora, poiché le lesioni e l’omicidio rientrano nel catalogo dei delitti presupposto idonei a far scattare la responsabilità amministrativa da reato dell’ente di cui al dlgs n. 231/2001, potranno trovare applicazioni pesanti sanzioni pecuniarie (fino a un milione e mezzo di euro in caso di morte del lavoratore) nonché interdittive e la confisca del profitto del reato, ogniqualvolta il contagio da avviene nell’ambito di un’impresa organizzata in forma societaria e venga accertato che si sia verificato per colpa di soggetti che esercitano funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione (quali Cda, Ad, dirigenti, preposti) o siano da questi diretti o vigilati, nonché l’illecito abbia procurato all’ente un vantaggio (anche in termini di risparmio di spesa per il mancato acquisto di Dpi o di tempo per la non adozione di precauzioni che avrebbe rallentato produzione).

L’accertamento del reato e il datore «virtuoso». Ciò detto, è pur vero che, per l’applicabilità dei suddetti reati, si dovrà accertare non solo la violazione da parte del datore di lavoro delle norme prevenzionistiche previste nella normativa emergenziale o all’interno del dlgs n. 81/2008, ma anche che il contagio del dipendente sia avvenuto all’interno dell’ambiente di lavoro e la sussistenza del nesso causale tra la violazione del datore di lavoro e il contagio verificatosi.
Tuttavia, al contempo, non si può trascurare che la mancata attuazione delle misure rappresenta una «presunzione», sia pure non assoluta, di colpevolezza in capo al datore di lavoro.
È, infatti, granitico sul punto l’orientamento della Corte di Cassazione secondo cui è da ritenere responsabile il datore di lavoro che, in caso di infortunio sul lavoro, non sia in grado di dimostrare di avere adottato i sistemi idonei e indispensabili a prevenire l’evento lesivo.
Inoltre, anche se il datore di lavoro «virtuoso», una volta sottoposto a indagini, avrà la possibilità di dimostrare di avere fatto tutto quello che poteva e doveva fare in osservanza delle prescrizioni normative e andare così esente da sanzioni (puntualizzazione giunta anche dall’Inail i giorni scorsi), è tuttavia da mettere in conto che prima dovrà passare sotto le forche caudine del procedimento penale, conservando lo status di indagato per tutto il tempo, spesso non celere, delle indagini preliminari, nonché potendo essere anche destinatario di provvedimenti di sequestro. La notizia di un «caso di infezione» di un lavoratore determinerà infatti l’avvio di accertamenti da parte dell’Inail e la contestuale comunicazione alla procura della repubblica potrà dare l’avvio a un procedimento. Non è, inoltre, da escludere l’eventualità che l’autorità procedente disponga il sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. dei locali in cui viene svolta l’attività lavorativa non soltanto a fini sanitari, ma anche per scongiurare di protrarre le conseguenze del reato; come non costituisce ipotesi remota un sequestro a fine probatorio ex art. 253 c.p.p.
Per questo, tra timori e incertezza a riaprire manifestate dagli imprenditori, la Fondazione Studi dei consulenti del lavoro ha suggerito l’opportunità di uno scudo penale per i datori che investono nella sicurezza.
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