Cresce il ricorso delle aziende ai piani di welfare, i benefit da riconoscere ai dipendenti non in contanti. Soluzioni sempre meno di base, cioè obbligatorie da contratto, e sempre più con erogazioni supplementari (on top). I lavoratori preferiscono essere retribuiti con strumenti immediati e di utilità quotidiana, come i buoni libri per i figli e i buoni spesa, piuttosto che con i versamenti aggiuntivi ai fondi pensione. Lo dice il rapporto di Willis Towers Watson che verrà presentato a Milano, all’hotel Gallia, giovedì 30 marzo (HR Challenge 2019 – Talenti, passaggio generazionale, riforme: HR tra presente e futuro) e che L’Economia anticipa.
Le nuove leggi, insomma, sembrano trainare il welfare aziendale, cioè i servizi e le prestazioni erogati dal datore di lavoro, con facilitazioni fiscali, in accordo con i sindacati e anche per decisione autonoma dell’imprenditore. È da tre anni che si può convertire esentasse il premio di produzione in benefit, con l’introduzione di rimborsi (che non vengono tassati in busta paga, diversamente dallo stipendio in contanti) anche per mensa, scuolabus, centri estivi e invernali per i figli. Gradualmente il rimborso si è allargato ad altri servizi, come i trasporti pubblici, e per le aziende è salita la convenienza fiscale (e il tetto massimo) sulla conversione del premio di produzione in spese mediche e previdenza.

L’indagine
Il risultato è quello illustrato dalla ricerca di Wtw, che ha coinvolto nel 2018 più aziende rispetto all’anno prima (261 contro 196) con 78 mila dipendenti (quasi il doppio rispetto ai 42.866 del 2017) e con un budget assegnato al welfare aziendale decisamente più alto: 30 milioni di euro, dai 20 milioni del 2018. I due terzi dei dipendenti sono impiegati (67%), il 25% operai, il 7% quadri e l’1% dirigenti.
Ebbene, lo stanziamento autonomo, aggiuntivo, da parte dell’azienda (on top) è aumentato: ha scelto questa formula il 52% delle imprese, contro il 38% dell’anno precedente. Chi ha preferito la quota base invece, cioè la retribuzione obbligatoria da contratto collettivo di lavoro, scende al 21% (era il 31%).
Il resto è conversione del premio di risultato (7% dal 4%) e soluzioni miste (20%).
Ma quali sono le scelte dei lavoratori italiani, quando si parla di welfare, in un ventaglio d’offerta che, dice Wtw, si aggira ormai sulle 800 voci? Quasi la metà del budget, il 45%, è andato sull’«acquisto di prodotti a catalogo», in testa i buoni spesa (56%) seguiti dalle attività ricreative, per esempio la palestra (44%). Quasi il 30% è stato usato per i «servizi a rimborso»: al primo posto qui c’è l’educazione (86%), come dire la scuola per i figli o i corsi per sé. Il rimborso degli abbonamenti per bus, treni e metrò copre in questa categoria soltanto il 9% del monte welfare (trasporto pubblico) e solo il 3% si riversa sull’assistenza (per esempio, la badante).
La sanità
È ristretta al 13% , sui 30 milioni di budget, la destinata alle «prestazioni sanitarie» (cure dentarie, visite specialistiche) e al 12% quella dei «versamenti al fondo pensione complementare». In compenso, «chi ha scelto la previdenza lo ha fatto in modo consapevole», dice la ricerca. E ha versato ben il 63% del denaro disposizione.
«Le aziende stanno aumentando il budget destinato al welfare — dice Cesare Lai, capo Health e benefits in Willis Towers Watson —. C’è ancora un divario culturale tra i più giovani, che non hanno aderito al programma per il fondo pensione, e servirebbe più comunicazione. Ma altri Paesi non hanno un paniere così ampio, dalle vacanze al corso di lingua. E i piani di benefit flessibile sono la novità: hai un budget, scegli tu. Un vantaggio per tutti».
Va tenuto conto delle differenze di posizione, naturalmente. I due terzi dei dipendenti dell’indagine hanno ricevuto una somma bassa, fino a 250 euro all’anno. Il 26% è salito fino a mille euro, il 9% a 3.500 e solo un lavoratore su 100, i top manager, ha superato i 3.500 euro.

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