Il mix di investimenti per i piani individuali di risparmio nel decreto pubblicato in G.U.

Almeno il 3,5% del capitale investito in pmi non quotate su un mercato regolamentato (quindi ok al segmento Aim di Borsa Italiana) e un altro 3,5% in venture capital. Questi i nuovi paletti per gli investimenti dei Pir, i piano individuali di risparmio a lungo termine, nella versione «2.0» risultante dall’ultima manovra di bilancio. A fissare le regole per essere considerati «Pir compliant» e quindi beneficiare del regime fiscale agevolato è stato l’atteso decreto ministeriale, messo a punto dallo Sviluppo economico di concerto con l’Economia, firmato il 30 aprile 2019 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 105 del 7 maggio scorso. Il provvedimento arriva dopo mesi di dibattito e più di qualche polemica. Da una parte gli operatori del settore finanziario che lamentano il rallentamento del mercato dei Pir proprio a seguito delle modifiche recate dalla legge n. 145/2018. Dall’altra le divergenze di vedute tra i tecnici dell’esecutivo, con il dm che avrebbe dovuto vedere la luce prima entro febbraio e poi entro marzo, senza dimenticare i ritocchi «fantasma» del decreto Crescita, inizialmente inseriti nel testo e poi non andati in porto.
Il dm fornisce quindi la disciplina attuativa dei nuovi Pir, ossia quelli costituiti a decorrere dal 1° gennaio 2019. Stop all’ipotesi della gradualità per raggiungere in tre anni la quota minima per risultare «Pir compliant» e quindi accedere all’agevolazione: si ricorda che per i risparmiatori i redditi finanziari derivanti da investimenti operati tramite Pir conformi, detenuti per almeno cinque anni, non sono imponibili sia ai fini delle imposte dirette sia ai fini successori. L’intera questione ruota sostanzialmente intorno alla quota obbligatoria del 70% che deve essere destinata per legge agli investimenti qualificati, come identificati dalla vigente normativa. All’interno di tale quota, precisa il dm 30 aprile 2019, i Pir 2.0 dovranno investire obbligatoriamente, per almeno due terzi dell’anno, un minimo del 5% in strumenti finanziari emessi da pmi «ammissibili» e un altro minimo del 5% in quote o azioni di fondi per il venture capital (o fondi di fondi). Attraverso l’incrocio delle due percentuali, la soglia minima in valore assoluto è pertanto pari al 3,5% per ciascuna categoria. Le pmi ammissibili, ai sensi del decreto, devono in primo luogo rispettare i limiti dimensionali fissati dalla normativa Ue: fatturato inferiore ai 50 milioni di euro, totale di bilancio non superiore ai 43 milioni di euro, meno di 250 persone occupate. Oltre a non essere quotate su un mercato regolamentato, le pmi in questione devono essere fiscalmente residenti in Italia o in un paese Ue/See e non aver ricevuto contributi finanziari superiori ai 15 milioni di euro. Infine, deve risultare soddisfatto almeno uno dei tre seguenti requisiti: non aver mai operato in alcun mercato, essere attiva sul fronte delle vendite da meno di sette anni o necessitare di un investimento iniziale per il finanziamento del rischio superiore alla metà del fatturato. Il nuovo decreto considera poi ammissibili gli investimenti diretti nel «quasi equity» delle pmi. Si tratta di una forma di finanziamento a metà tra l’acquisto di obbligazioni e l’investimento in capitale, che presenta un rischio più elevato dei bond senior, ma inferiore rispetto alle partecipazioni vere e proprie. Il rendimento del «quasi equity», precisa il dm, si basa principalmente sui profitti o sulle perdite dell’impresa destinataria e non è garantito in caso di cattivo andamento della società.
Valerio Stroppa
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