L’istituto ligure è oggi l’anello debole del sistema bancario italiano, che rischia di essere penalizzato da una crisi senza fine. Dopo lo stop di BlackRock ora si cerca un nuovo investitore. Ma la soluzione di sistema è molto probabile
di Luca Gualtieri

La doccia gelata di mercoledì 8 ha spiazzato non solo i vertici di Carige ma l’intero sistema bancario italiano. Il dietrofront di BlackRock ha imposto uno stop al salvataggio della cassa genovese, che ora viene bruscamente riportata al punto di partenza. La battuta d’arresto arriva a pochi giorni dalla scadenza della proroga concessa dalla Bce e in un periodo molto delicato per il sistema finanziario italiano. Dall’inizio dell’anno lo spread si è stabilizzato intorno a 270 punti, quota al di sotto dei massimi di novembre ma ancora lontana dai livelli di inizio 2018. Un’incertezza che si riflette nel costo del debito della Corporate Italia, a partire proprio dai servizi finanziari: dal maggio scorso il rendimento dei bond bancari è salito in media fino a 200 punti, rendendo particolarmente onerosa la raccolta. Il timore è che le elezioni europee del 26 maggio e l’incertezza politica che potrebbe seguirne generino ulteriore instabilità sul mercato.

In questo contesto la recrudescenza della crisi Carige rischia di destabilizzare l’intero sistema bancario, gettando benzina sul fuoco della speculazione. Ecco perché il no di Larry Fink è stato accolto con preoccupazione dai vertici dei principali istituti di credito, che come extrema ratio potrebbero accettare un nuovo intervento di sistema per allontanare lo spettro della risoluzione. Al momento comunque i commissari Pietro Modiano, Fabio Innocenzi e Raffaele Lener (assistiti dai banker di Ubs coordinati da Christian Montaudo e dai consulenti di Boston Consulting Group) stanno tentando di trovare un investitore privato che rimpiazzi BlackRock nel salvataggio. L’idea è coinvolgere alcuni dei private equity che avrebbero dovuto affiancare il gestore Usa. Un progetto praticabile ma scivoloso: se la Bce ha dato segnali di apertura rispetto alla concessione di una proroga, il sentiero per trovare un accordo è molto stretto sia per la complessità finanziaria del deal sia per le forti pressioni istituzionali. Ecco perché in ambienti finanziari si fa strada l’ipotesi di una soluzione che coinvolga il sistema bancario nella sua interezza o un singolo istituto nel ruolo di cavaliere bianco.
Anche se la banca rassicura sulla tenuta della liquidità, il clima è di emergenza. Un’emergenza certamente non inedita per Carige . Quella dell’istituto genovese è infatti una crisi lunghissima nel panorama dei dissesti bancari italiani. Sono passati sei anni dall’uscita di scena di Giovanni Berneschi, il controverso padre-padrone che Banca d’Italia costrinse alle dimissioni nell’autunno 2013 dopo alcune dure ispezioni. Da allora l’istituto ha spolpato gli azionisti con 2,21 miliardi di aumenti di capitale (800 milioni nel 2014, 850 nel 2015 e 560 nel 2017) a fronte di 3,18 miliardi di perdite, determinate in larghissima parte dai 3,15 miliardi di rettifiche su crediti. Anni di deleveraging hanno assottigliato in maniera consistente l’attivo che è passato dai 38 miliardi del 2011 ai 24 miliardi del settembre scorso. La ristrutturazione non poteva avvenire in un contesto macroeconomico peggiore: con i tassi in caduta verso lo zero, i ricavi hanno costantemente perso quota. Carige è passata dai 490 milioni di interessi netti del 2011 ai 233 di fine 2017, mentre il margine di intermediazione si è contratto da 858 a 381 milioni. Se è vero che negli ultimi anni il perimetro del gruppo si è ristretto, la flessione è stata comunque molta significativa. Specie perché la banca ha nel frattempo rinunciato a importanti fonti di ricavo: dopo aver venduto le assicurazioni ad Apollo, si è recentemente disfatta anche di Creditis, la controllata attiva nel credito al consumo. Mosse obbligate che però hanno aumentato la dipendenza da margine di interesse. Il risultato è che il cost/income è balzato dal 58,5% del 2011 al 90,2% del settembre scorso. E ciò malgrado i tagli effettuati dalle gestioni che si sono succedute: rispetto al 2011 circa un dipendente su tre è uscito dalla banca, mentre la rete commerciale si è contratta di quasi 200 filiali. La maggior parte degli sportelli rimasti insiste oggi sulla Liguria, una regione in cui dal 2007 al 2016 il pil è crollato del 12,5% con una performance peggiore a quella di Sud e Isole. Se questo è il declino industriale, per gli azionisti gli ultimi sei anni sono stati un bagno di sangue: un euro investito nel 2012 ha incassato una perdita superiore al 99%, anche se dall’inizio di gennaio le negoziazioni sono sospese in attesa di una soluzione alla crisi.
Sono questi i numeri che Ubs proverà di nuovo a snocciolare di fronte ai potenziali investitori alla ricerca di un cavaliere bianco. Dopo il clamoroso flop dell’assemblea di dicembre in cui la famiglia Malacalza ha fatto saltare il piano di salvataggio, l’aggregazione è del resto una strada obbligata per Carige , finita nel frattempo in amministrazione straordinaria. Già a fine gennaio la Bce aveva chiesto ai vertici di individuare in tempi serrati di un partner finanziario. Il dossier è circolato sulle scrivanie delle principali banche italiane, anche se molti ceo si sono già smarcati. Intesa e Ubi hanno fatto capire con chiarezza di non essere interessate, mentre Bper e Unipol sono concentrate sull’integrazione di Unipol Banca. Resta Unicredit , che però avrebbe posto condizioni molto stringenti al governo: il precedente a cui si guarda è quello di Intesa , che nel 2017 rilevò gli asset di Veneto Banca e Popolare di Vicenza con una ricca dote statale che copriva la pulizia del bilancio e gli esodi del personale. In generale insomma il sistema bancario italiano si è finora mostrato molto freddo di fronte al dossier. E questo malgrado il tesoretto da circa 2 miliardi di euro tra crediti fiscali, rimozione di add-on e adozione di modelli interni. Non è escluso però che proprio il timore di un’impennata del rischio-Italia posso riportare il sistema bancario a più miti consigli e aprire le porte a una nuova soluzione di sistema. (riproduzione riservata

Senza investitori privati? Fitd o Tesoro le due soluzioni possibili
di Francesco Ninfole

I prossimi giorni saranno dedicati alla ricerca di investitori privati disposti ad accompagnare lo Schema Volontario del Fitd (Fondo interbancario di tutela dei depositi) nel salvataggio di Carige . Ma quali sarebbero le strategie alternative, nel caso non si trovassero acquirenti privati? Tutte le strade possibili presentano insidie da superare. Una soluzione è già stata messa nero su bianco: la ricapitalizzazione precauzionale dello Stato fino a 1 miliardo di euro. Ma vanno superati ostacoli tecnici e politici. La ricapitalizzazione precauzione è un’eccezione della direttiva Brrd e consente di applicare il burden sharing ma senza bail-in: in sostanza, ci sarebbe l’annullamento delle azioni e la conversione del bond subordinato da 320 milioni sottoscritto dallo Schema Volontario, ma non la partecipazione alle perdite di obbligazionisti senior e depositanti oltre 100 mila euro (quelli sotto la soglia sono sempre garantiti). La ricapitalizzazione preventiva può essere utilizzata da banche solventi con deficit negli scenari avversi degli stress test. Perciò serve l’ok delle autorità europee. Inoltre deve essere presente un «interesse pubblico» alla risoluzione: lo certifica il Single Resolution Board per gli istituti di grande dimensioni. Se ci fosse l’interesse pubblico, partirebbe la ricapitalizzazione come avvenuto per Mps . Altrimenti si passerebbe alla liquididazione con regole nazionali, con possibili aiuti pubblici, come accaduto per le due banche venete. Detto ciò, sono scarse le possibilità di una ricapitalizzazione preventiva prima delle elezioni europee del 26 maggio: non solo per i tempi stretti, ma anche per il costo politico della mossa. Servirebbe una proroga della scadenza Bce, che ha chiesto una soluzione definitiva entro il 17 maggio. Sempre sul fronte pubblico, alcuni osservatori ricordano l’esistenza in linea teorica di un’altra ipotesi, ma tutta da contrattare a livello europeo: l’intervento di Mps , controllata dal Tesoro con il 68%. Al momento non è un’operazione possibile, dati i vincoli Ue per le banche che hanno ricevuto denaro pubblico.
Nelle ultime ore alcuni banchieri italiani hanno però rilanciato le ipotesi di un intervento di sistema. Le banche sane, oltre alla conversione del bond subordinato, dovrebbero versare almeno altri 300-350 milioni. Il ceo di Unicredit Jean Pierre Mustier si è detto pronto a giocare un ruolo, se richiesto, «purché su basi eque e proporzionali». «Mi pare difficile che una banca delle dimensioni e dell’importanza di Bper possa sottrarsi», ha detto Carlo Cimbri, a.d di Unipol, che è socio di Bper . Anche Giuseppe Castagna, ceo di Banco Bpm , ha fatto notare a MF-Dowjones che l’istituto «ha partecipato insieme alle altre banche col Fondo Interbancario al tentativo di sostegno. Ora facciamo lavorare i commissari e vedremo insieme quello che sarà possibile e necessario fare». La soluzione di sistema passa per il Fitd: il fondo obbligatorio è stato riabilitato dalla recente sentenza del Tribunale Ue su Tercas, anche se la Commissione Ue ha ancora tempo per presentare ricorso. Il vantaggio del Fitd è di coinvolgere tutte le banche in modo proporzionale, come indicato da Mustier. La strada dello Schema Volontario è slegata da obblighi Ue ma ha più vincoli nelle operazioni perché richiede un ampio consenso tra gli istituti italiani e ha limiti statutari riguardo al possesso della maggioranza di banche acquistate. (riproduzione riservata)

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