Per espressa previsione dell’art. 13, comma 2 del d.lgs. 38/2000 le disposizioni sul nuovo sistema di liquidazione, che ha introdotto l’indennizzo del danno biologico riguardano, i danni conseguenti ad infortuni sul lavoro e a malattie professionali verificatisi o denunciati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al comma 3; decreto che è stato emanato il 12 luglio 2000 e pubblicato nella G.U. del 25 luglio 2000.

Per gli eventi dannosi antecedenti come quello oggetto di causa si applica (legittimamente, secondo la Corte Cost. n.426/2006) la disciplina precedentemente in vigore, nella quale invece non era previsto un sistema specifico di indennizzo del danno biologico essendo erogabile, ai sensi dell’art. 74 del DPR cit. (anche per le malattie professionali, dopo la sentenza della Corte Cost. 93/1977), soltanto una rendita per inabilità permanente commisurata all’attitudine al lavoro e solo in caso di raggiungimento della soglia minima dell’11% di menomazione.

L’esatta individuazione della normativa applicabile alla fattispecie assume dunque rilievo essenziale giacché, relativamente al sistema regolato dal T.U. n. 1124 del 1965, l’oggetto dell’azione di rivalsa ex art. 11 va identificato, alla luce dei complessi esiti della giurisprudenza costituzionale e di legittimità formatasi in tale contesto in tema di danno biologico e danno morale, nel cd. danno patrimoniale in senso stretto, ed il relativo giudizio comporta la necessità di accertare che la percentuale di inabilità permanente parziale, che rileva ai fini del riconoscimento della relativa rendita al lavoratore infortunato, sia determinata con riguardo al grado di riduzione dell’attitudine al lavoro (generico), secondo i criteri di cui all’art. 78 del d. P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 ed alla tabella ivi richiamata, restando esclusa la possibilità di tener conto, ai fini anzidetti, del cosiddetto danno biologico o di quello estetico, stante la configurabilità dell’assicurazione contro gl’infortuni sul lavoro come assicurazione finalizzata al risarcimento della perdita o della riduzione della capacità lavorativa degli assicurati e non al risarcimento del danno secondo la nozione più ampia (e perciò comprensiva del danno biologico ed estetico) di cui agli artt. 2043 e segg. cod. civ.

Dunque, solo se la capacità lavorativa specifica si traduce in una riduzione della capacità di guadagno, questa diminuzione della produzione di reddito integra un danno patrimoniale e come tale va liquidato a norma dell’art. 2043 c.c. (danno patrimoniale e, quindi, conseguenza).

L’invalidità permanente (sia totale che parziale), mentre di per sé concorre a costituire il danno biologico, non comporta necessariamente anche un danno patrimoniale.

A questo fine il giudice, oltre ad accertare in quale misura la menomazione fisica abbia inciso sulla capacità di svolgimento dell’attività lavorativa specifica e questa a sua volta sulla capacità di guadagno (e, quindi, di produrre ricchezza), deve anche accertare se ed in quale misura in tale soggetto persista o residui, dopo e nonostante l’infortunio subito una capacità ad attendere ad altri lavori, confacente alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte.

Solo se dall’esame di questi elementi risulterà una riduzione della capacità di guadagno e del reddito effettivamente percepito, questo (e non la causa di questo, cioè la riduzione della capacità di lavoro, specifica) sarà risarcibile sotto il profilo del lucro cessante.

Corollario di tali principi è, dunque, che nel giudizio di rivalsa l’INAIL possa pretendere che il datore di lavoro e il suo preposto alla sicurezza siano condannati a versare quanto erogato all’infortunato esclusivamente a titolo di danno patrimoniale, con la conseguenza che la sentenza, soprattutto laddove la questione sia stata espressamente devoluta, deve dimostrare di aver valutato specificamente le singole poste considerate al momento del calcolo delle prestazioni assicurative.

In tema di azione di regresso, il datore di lavoro è estraneo al rapporto tra l’infortunato e l’istituto assicuratore pubblico e non può contestarne il fondamento anche se, nei confronti dell’INAIL, è obbligato nei limiti dei principi che informano la responsabilità civile per il danno civilistico subito dal lavoratore.

Conseguentemente, il giudice del merito deve calcolare il danno civilistico (artt. 1221, 2056 cod. civ.) in relazione alla percentuale riconosciuta dal consulente tecnico d’ufficio, che costituisce il limite massimo del diritto di regresso dell’INAIL, senza entrare nel merito della valutazione effettuata dall’istituto a mezzo dei suoi sanitari ai fini del danno infortunistico, stabilendo, quindi, se l’importo richiesto dall’istituto rientra o meno nel predetto limite.

Ove il datore di lavoro non abbia rispettato specifiche norme di sicurezza, la sua responsabilità, in ordine all’infortunio subito dal dipendente, non può essere senz’altro ammessa se sia emersa una coeva o successiva condotta colpevole dell’infortunato o di altri, né esclusa soltanto per tale fatto, dovendosene accertare la reale autonomia causale rispetto alla causa posta in essere dal datore di lavoro ovvero la concorrenza.

In ragione della natura originaria e autonoma dell’azione di rivalsa riconosciuta all’INAIL dall’art. 11 del T.U. n. 1124 del 1965, oggetto dell’azione stessa è quanto erogato al lavoratore a titolo di indennità e spese accessorie nonché del valore capitale dell’ulteriore rendita devolutagli. Limite invalicabile rispetto all’ammontare di tale pretesa è quanto dovuto al danneggiato dall’autore del danno secondo le norme generali che disciplinano la responsabilità per fatto illecito.

Riassumendo, individuate in concreto le poste considerate quali oggetto dell’azione di regresso posta in essere dall’INAIL (ferma restando la congruità delle indennità corrisposte al lavoratore) e verificate le eventuali ragioni di concorso dell’infortunato nella determinazione dell’infortunio dallo stesso subito, occorre calcolare (anche a mezzo di CTU) il danno civilistico ai sensi degli artt. 1221 e ss. 2056 cod. civ. in relazione alla percentuale riconosciuta a tale specifico scopo e stabilisca se l’importo richiesto dall’INAIL a titolo di regresso per il danno patrimoniale subito rientri oppure no in tale limite.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, 7 marzo 2018 n. 5385