Le novità su fondi pensione, Tfr e Rita
di a cura di Daniele Cirioli

La previdenza complementare, non obbligatoria, nasce come forma di protezione aggiuntiva a quella pubblica, obbligatoria, alla quale non può sfuggire chi svolge attività di lavoro, perché prescritta dalla legge. Ciò che accomuna le due previdenze, la complementare (o integrativa) e la pubblica obbligatoria, è il campo di applicazione: entrambe si rivolgono a tutti i lavoratori, sia dipendenti sia autonomi, sia del settore privato sia di quello pubblico.
Fino a dieci anni fa circa, il quadro di disciplina, piuttosto scarso, caratterizzava la previdenza complementare per tre principali aspetti: la natura volontaria di adesione (cioè la non obbligatorietà), il regime finanziario di gestione (quello a capitalizzazione, anziché a ripartizione come vige invece per la previdenza obbligatoria), un regime fiscale di favore a stimolarne lo sviluppo. Poi è arrivata la riforma: da gennaio 2007 le cose sono in parte cambiate con un’operazione che, tra l’altro, ha investito di un ruolo fondamentale il trattamento di fine rapporto lavoro, il Tfr, ovviamente solo per quei lavoratori (dipendenti) che hanno la fortuna di avervi diritto; per il resto la riforma ha dettato regole e principi più chiari sulla previdenza integrativa e marcato il ruolo della leva fiscale per lo sviluppo (rendendo più conveniente l’investimento previdenziale). A proposito del Tfr, la riforma (dlgs n. 252/2005) ha introdotto la «quasi-obbligatorietà» della destinazione del Tfr alla previdenza integrativa al fine di costruire una «pensione di scorta» o «fai-da-te», divenuta nel frattempo sempre più necessaria in conseguenza della continua erosione del sistema delle pensioni pubbliche. D’allora, pertanto chi è assunto ha l’obbligo di manifestare la sorte che vuol dare al proprio Tfr: mantenerlo come forma di retribuzione differita, cioè da intascare a fine carriera; oppure destinarlo a uno specifico fondo pensione per la costruzione di una pensione integrativa. Se non viene fatta alcuna scelta (ecco la «quasi-obbligatorietà»), il Tfr finisce naturalmente nella previdenza integrativa: nel fondo pensione dell’azienda oppure di quello del settore in cui opera l’azienda; oppure, se questi fondi non esistono, a FondInps, che è il fondo pensione attivo presso l’Inps.
A distanza di 10 anni, l’anno scorso è arrivata una nuova riforma che tocca Tfr, FondInps e fondi pensione, prima con la legge n. 124/2017 e poi con la legge di Bilancio del 2018 (legge n. 205/2017). Diverse le novità: il Tfr è tornato nuovamente compatibile con la previdenza integrativa, cosicché chi sceglie di farsi una pensione di scorta non è più costretto a rinunciare a tutto il Tfr (al fondo pensione può destinarvi una quota o addirittura niente e anche chi è stato costretto in passato a rinunciare al Tfr, può ripensare la scelta); è stata prevista la facoltà per i fondi pensioni di prevedere forme di pre-pensionamento nei casi di disoccupazione oltre 24 mesi (in precedenza 48 mesi) con una riduzione dei requisiti fino a 10 anni (in precedenza fino a 5); è stata prevista l’abrogazione di FondInps; è stata resa strutturale la «Rita» (rendita integrativa temporanea anticipata), che offre ai lavoratori iscritti alla previdenza integrativa la possibilità di ottenere una rendita temporanea, cioè per un periodo limitato di tempo e, precisamente, fino all’epoca dell’effettivo pensionamento obbligatoria (fino alla maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia).
Tutte queste novità hanno aggiornato il quadro delle regole di disciplina dei fondi pensioni e, più in generale, della pensione integrativa.
LA PREVIDENZA COMPLEMENTARE (O INTEGRATIVA)
Immaginandola come sistema di relazioni, la previdenza integrativa coinvolge due principali attori: un fondo pensione (tecnicamente si chiama «forma pensionistica complementare») e il lavoratore. Oltre a questi, ovviamente, c’è lo Stato che detta le regole delle relazioni, tramite soprattutto la Covip, delegata a svolgere funzioni di garanzia.

I fondi pensione
Il primo attore è il fondo pensione che svolge il ruolo di gestore dei risparmi dei lavoratori, dando loro la garanzia di una futura pensione. I fondi pensione, cioè le «forme pensionistiche complementari», possono essere di due specie:
«forme pensionistiche complementari collettive»: alle quali è possibile aderire collettivamente o individualmente e con l’apporto di quote del Tfr;
«forme pensionistiche complementari individuali»: alle quali è possibile destinare quote del Tfr.
I fondi pensione hanno una tradizionale classificazione nel seguente modo:
Fondi chiusi o negoziali. Nascono da contratti o accordi collettivi o regolamenti aziendali che individuano i soggetti ai quali il fondo si rivolge sulla base dell’appartenenza a un determinato comparto, impresa o gruppo di imprese o a un determinato territorio (per esempio regione o provincia autonoma).
Fondi pensione preesistenti. Sono forme pensionistiche complementari già istituite alla data del 15 novembre 1992 (la data fa riferimento all’entrata in vigore della legge n. 421/1992).
Fondi pensione aperti. Sono istituiti direttamente da banche, società d’intermediazione mobiliare, compagnie di assicurazione e società di gestione del risparmio. L’adesione ai fondi aperti può avvenire in forma individuale o collettiva.
Assicurazione sulla vita con finalità previdenziali (Pip). Le forme pensionistiche complementari individuali possono essere realizzate anche mediante specifici contratti di assicurazione sulla vita. In tal caso le regole che disciplinano il rapporto con l’iscritto sono contenute, oltre che nella polizza assicurativa, in un apposito regolamento, redatto in base alle direttive della Covip al fine di garantire all’aderente gli stessi diritti e prerogative delle altre forme pensionistiche complementari.
FondInps. Figura a parte va considerato il fondo pensione residuale presso l’Inps. È una «forma pensionistica complementare a contribuzione definita» alla quale affluiscono tutte le quote di Tfr dei lavoratori dipendenti nell’ipotesi in cui per gli stessi, non esprimendo alcuna scelta sul conferimento del loro Tfr, opera il cd silenzio-assenso. La posizione individuale costituita presso FondInps può essere trasferita, su richiesta del lavoratore, anche prima del termine di due anni previsto di norma, ad altra forma pensionistica dallo stesso prescelta.
Addio a FondInps
Nel 2018 è prevista l’abrogazione di FondInps, in base all’art. 1, commi 173-176, della legge n. 205/2017 (la legge Bilancio 2018). Le posizioni contributive esistenti saranno trasferite in un fondo pensione negoziale già esistente e operante, che sarà individuato mediante specifico decreto ministeriale «tra quelli di maggiori dimensioni». Al fondo così individuato, inoltre, finiranno iscritti i futuri lavoratori dipendenti «silenti». Al 31 dicembre 2016 (ultimo bilancio disponibile), FondInps annovera 37.313 lavoratori dipendenti iscritti, riferibili a 3.341 aziende. Gestisce un patrimonio di 75 milioni di euro, investito tramite Unipol Assicurazioni spa in maggioranza in titoli di Stato (50 milioni di euro circa, quelli dello stato italiano). La soppressione di FondInps avverrà con decorrenza fissata da un decreto ministeriale (lavoro ed economia), lo stesso decreto che dovrà anche individuare il fondo pensione sostitutivo tra quelli «negoziali di maggiori dimensioni sul piano patrimoniale» e con linee d’investimento «più prudenziali tali da garantire la restituzione del capitale e rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del Tfr». Il decreto sarà emanato dopo aver sentito anche le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori più rappresentative sul piano nazionale dei diversi comparti del settore privato.

Destinatari della previdenza integrativa
Destinatari delle forme di previdenza complementare sono ovviamente i lavoratori. In particolare, sono interessati i lavoratori dipendenti, privati e pubblici, anche secondo il criterio di appartenenza alla medesima imprese, ente, gruppo di imprese, categoria, comparto o raggruppamento, anche territorialmente delimitato, o diversa organizzazione di lavoro e produttiva, ivi compresi i lavoratori assunti in base alle tipologie contrattuali cosiddette flessibili; i lavoratori autonomi e i liberi professionisti, anche organizzati per aree professionali e per territorio; i soci delle cooperative, anche unitamente ai lavoratori dipendenti delle cooperative interessate; le persone che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari.

Il costo della pensione integrativa
Le forme di previdenza complementare (i fondi pensione) si finanziano mediante i contributi versati dal lavoratore e anche dal datore di lavoro, nonché dalle quote del Tfr se previsto. Non esiste alcun vincolo all’ammontare massimo dei contributi che si possono versare a un fondo pensione. In altre parole, i lavoratori hanno facoltà di auto-determinare l’entità dei contributi che vogliono destinare, a proprie spese, alla costruzione della pensione integrativa e possono anche decidere di contribuire esclusivamente col Tfr.
Relativamente ai lavoratori dipendenti che aderiscono ai fondi collettivi (cioè istituiti in base ad accordi aziendali e/o fra lavoratori), con adesione su base collettiva, le modalità e la misura minima della contribuzione a carico del datore di lavoro e del lavoratore stesso possono essere fissati dai contratti e dagli accordi collettivi, anche aziendali. Mentre gli accordi fra soli lavoratori possono determinare il livello minimo della contribuzione a carico degli stessi.
Sempre nel caso di lavoratori dipendenti, il finanziamento della previdenza integrativa può avvenire tramite il Tfr e per mezzo di contributi. Nel caso di adesione attraverso la procedura di conferimento del Tfr, sia in forma esplicita che tacita, non è obbligatorio versare anche la contribuzione, essendo sufficiente il Tfr. L’obbligo non sussiste né per il lavoratore e neppure per l’azienda. Le due parti (lavoratore e azienda) restano nella piena libertà e autonomia, ciascuno cioè per proprio conto, di decidere di destinare un contributo al fondo pensione.
Le cose cambiano quando è il lavoratore che decide di contribuire. La decisione, infatti, si riverbera sull’azienda e, se la contrattazione collettiva (anche di livello aziendale) prevede un contributo a favore della previdenza integrativa a carico dell’azienda, la sua decisione di contribuire vincola il datore di lavoro al versamento della contribuzione aziendale. Allora, posto che il lavoratore decida di contribuire, le conseguenze possono essere due:
la contrattazione collettiva, anche aziendale, prevede un contributo aziendale a favore del lavoratore per la previdenza integrativa: il contributo affluisce al fondo pensione prescelto dal lavoratore (esplicitamente o tacitamente);
la contrattazione collettiva non prevede un contributo aziendale a favore del lavoratore per la previdenza integrativa: un eventuale contributo a favore del lavoratore può essere deciso dal datore di lavoro.

DA SAPERE
I contributi di reintegroEsiste anche la contribuzione «di reintegro». Come detto i lavoratori possono chiedere alla forma di previdenza complementare cui si sono iscritti di avere delle anticipazioni sulle somme accantonate, ossia sul «montante» che è la loro «posizione previdenziale». Tali anticipazioni, evidentemente, abbassano il totale delle somme accantonate e ciò determina una riduzione delle future prestazioni pensionistiche. Per evitare questo futuro taglio delle prestazioni, ai lavoratori è data la possibilità di reintegrare la propria posizione previdenziale, in base a proprie scelte e in qualsiasi momento, anche mediante contribuzioni annuali che vadano oltre il limite di 5.164,57 euro che rappresenta il limite per beneficiare delle agevolazioni fiscaliLa volontariaUn aiuto alla pensione integrativa arriva pure dalla volontaria. Se all’atto del pensionamento (pubblico) non abbia maturato ancora i cinque anni che danno diritto alla pensione integrativa, il lavoratore ha la possibilità di posticiparne l’accesso (cioè la riscossione della pensione integrativa), decidendo di proseguire volontariamente nella contribuzione. Tale facoltà è concessa a patto che il lavoratore possa far valere, alla data del pensionamento (pubblico), almeno un anno di contributi nel settore di previdenza complementare

La questione della «portabilità» (fino al 28 agosto 2017)
Una volta fatta l’iscrizione a un fondo pensione il legame è per sempre? Il legame è per sempre con la previdenza integrativa, ma non con uno specifico fondo pensione. Infatti, il cd «diritto di portabilità» riconosce la facoltà ai lavoratori di trasferire la posizione individuale maturata in una forma pensionistica verso un’altra (verso, cioè, un qualunque altro fondo pensione). Tale portabilità è esercitatile una volta che sia trascorso il periodo minimo di permanenza di due anni e non può essere ostacolata, direttamente o indirettamente, da costi aggiuntivi a carico dei lavoratori. Invece una volta che si è finiti iscritti alla previdenza integrativa non se può più venirne fuori (salvo casi eccezionali). In altre parole, non si ha possibilità di ritornare alla vecchia buonuscita, per esempio, una volta che si è deciso di destinare il Tfr a un fondo pensione. E, si continui a lavorare presso la stessa azienda o si cambi lavoro, ci si porterà con sé sempre e ovunque quel vincolo di dover destinare il Tfr alla pensione integrativa (salvo qualche eccezione, come detto). Ciò che resta possibile al lavoratore, allora, è solo muoversi all’interno del sistema della previdenza integrativa. Una mobilità che si realizza nella facoltà di spostare la sua iscrizione da una forma pensionistica a un’altra (per esempio perché vede possibilità di migliorare il suo investimento), riconosciuta come visto dal diritto di portabilità. Il diritto si matura decorsi due anni dall’iscrizione a una forma pensionistica complementare, periodo che rappresenta un minimo vincolante (per FondInps il minimo d’iscrizione è un anno). Gli statuti e i regolamenti delle forme pensionistiche complementari (tutte, sia i fondi chiusi che aperti, i pip ecc.), a tal fine, sono obbligati a prevedere esplicitamente il diritto di portabilità e non possono contenere clausole che risultino, anche di fatto, limitative di tale diritto.

Il ruolo del Tfr (fino al 28 agosto 2017)
Come accennato, vige una sorta di «quasi-obbligatorietà» della destinazione del Tfr alla previdenza integrativa al fine di una «pensione di scorta» o «fai-da-te». Chi ha la fortuna di avere un lavoro, infatti, e viene assunto ha l’obbligo di manifestare la sorte che vuole dare al proprio Tfr: mantenerlo come forma di retribuzione differita, cioè da intascare a fine carriera lavorativa; oppure destinarlo ad uno specifico fondo pensione. E se non fa alcuna scelta, il Tfr finisce naturalmente investito in previdenza integrativa. Questa regola si chiama regola del «silenzio-assenso», pratica applicazione del detto «chi tace acconsente». Il lavoratore che tace, cioè acconsente ma a che cosa? Acconsente al trasferimento del suo Tfr nei fondi pensione. Attenzione; la scelta è definitiva, cioè non più ritrattabile. C’è una sola alternativa: decidere e rendere inattivo il silenzio-assenso. La disciplina dà ai lavoratori (solo ai dipendenti, che sono i soli lavoratori con diritto al Tfr) un tempo di 6 mesi per decidere sulle sorti del proprio Tfr. Due le modalità per manifestare la decisione: modalità esplicita oppure modalità tacita.
La prima modalità si realizza quando il lavoratore manifesta per iscritto la decisione raggiunta circa il destino del suo Tfr. La manifestazione deve essere resa al proprio datore di lavoro, utilizzando la modulistica predisposta dal ministero del lavoro (i moduli Tfr1 e Tfr2). La modalità tacita è la pratica realizzazione della regola del silenzio assenso. Se il lavoratore resta zitto, cioè non manifesta per iscritto alcuna decisione, il destino del suo Tfr è segnato: finisce nella previdenza integrativa. Per questa modalità non si utilizza alcuna modulistica. In maniera esplicita, il lavoratore può decidere di :
mantenere il Tfr presso il proprio datore di lavoro, con possibilità di cambiare successivamente idea;
destinare tutto il Tfr alla previdenza complementare.
Se il lavoratore NON decide, si realizza la modalità tacita che ha una sola conseguenza: il Tfr finisce nella previdenza integrativa. Scatta la regola del silenzio assenso e a questo punto la legge impone una serie di adempimenti a carico del datore di lavoro, il quale non può in nessun caso sottrarsi. In particolare, il datore di lavoro è obbligato a:
conferire il Tfr del lavoratore al fondo pensione collettivo, quello cioè previsto dal contratto collettivo applicato in azienda; qualora siano previsti più fondi collettivi, il conferimento del Tfr avverrà al fondo individuato d’intesa con i sindacati; in mancanza di accordo, il datore di lavoro provvederà a conferire il Tfr al fondo pensione che abbia il maggior numero di lavoratori aderenti;
a conferire il Tfr del lavoratore a FondInps, il fondo pensione istituito presso l’Inps, se manca un fondo pensione aziendale (se cioè non è praticabile la prima strada).

LE NUOVE REGOLE (DAL 29 AGOSTO 2017)
Il 29 agosto 2017, grazie alla legge n. 124/2017 (c.d. «legge annuale sulla concorrenza»), il Tfr è tornato nuovamente ad essere «compatibile» con la previdenza integrativa. A distanza di 10 anni dalla riforma che impose la destinazione integrale del Tfr ai lavoratori aderenti a un fondo pensione, è arrivata la marcia indietro: chi sceglie di farsi una pensione di scorta non è più costretto a rinunciare a tutto il Tfr. Al fondo pensione, infatti, può destinarvi anche una percentuale o addirittura niente. A stabilirlo, come accennato, è stata la legge n. 124/2017, in vigore dal 29 agosto 2017 e illustrata dalla Covip con la nota n. 888/2017. Tra le altre novità, anche la possibilità per i fondi pensioni di prevedere forme di pre-pensionamento nell’ipotesi di disoccupazione superiore a 24 mesi (prima 48 mesi) con riduzione dei requisiti ordinari fino a 10 anni (prima fino cinque).

PACE FATTA TRA FONDI PENSIONE E TFR
Fino al 28 agosto 2017Il lavoratore, al momento dell’assunzione, deve decidere entro sei mesi:
a) se investire il Tfr in pensione integrativa;
ovvero
b) se conservare il Tfr come buonuscita.
La decisione riguarda «tutto» il Tfr maturando e la scelta è irrevocabile (non è possibile, in altre parole, il ripensamento.Dal 29 agosto 2017 (1)Il lavoratore, al momento dell’assunzione, deve decidere entro sei mesi:
a) se investire il Tfr in pensione integrativa;
ovvero
b) se conservare il Tfr come buonuscita.
La decisione riguarda il Tfr maturando per una quota, tutto o niente. La scelta, inoltre, non è più irrevocabile ed è possibile il ripensamento
(1) Subordinatamente alla disciplina da parte delle fonti istitutive del fondo pensione

Pace fatta tra Tfr e pensione di scorta
Fino al 28 agosto 2017, dunque, era praticamente impossibile la convivenza tra Tfr e pensione integrativa: o l’uno o l’altra. Dal 29 agosto le cose sono cambiate con una modifica dell’art. 8 del dlgs n. 252/2005, la quale stabilisce che gli accordi, anche aziendali, «possono stabilire la percentuale minima di Tfr maturando da destinare a previdenza complementare». E aggiunge che «in assenza di tale indicazione il conferimento è totale». La norma, pertanto, dà facoltà agli accordi tra lavoratori e datori di lavoro di prevedere la possibilità di investire solo una quota del Tfr, così da preservare sia la «buonuscita» e sia la costruzione di una rendita aggiuntiva alla pensione pubblica. La nuova norma, dunque, legittima la possibilità, per le fonti istitutive dei fondi pensione, di modulare la quota di Tfr da destinare ai fondi pensione. Il che significa prevedere anche la facoltà, per chi aderisce alla previdenza integrativa (ma la possibilità è prevista anche per chi sia iscritto a un fondo pensione, come precisato avanti), di decidere da zero al 100% la quota da destinare al finanziamento della pensione di scorta. Se le fonti istitutive non danno indicazioni in merito, il conferimento deve intendersi al 100%, cioè come oggi. Secondo la Covip, la nuova norma consente alle fonti istitutive di graduare, nel modo più consono alle esigenze degli interessati, la destinazione del Tfr maturando alla previdenza complementare, tenendo conto del quadro d’insieme della contribuzione prevista e dell’esigenza di assicurare ai lavoratori un’adeguata prestazione pensionistica che vada concretamente a integrare la pensione obbligatoria. Per la Covip, tuttavia, la regola ordinaria resta comunque quella della devoluzione integrale del Tfr maturando. La novità, dunque, è l’attribuzione alle fonti istitutive della possibilità di definire anche più quote percentuali alternative di Tfr nell’ambito delle quali la quota minima potrebbe anche essere pari a zero, rimettendo agli aderenti destinatari la scelta in ordine alla quota da versare e, in ogni caso, senza pregiudizio della facoltà dell’aderente di disporre comunque l’integrale destinazione del Tfr al fondo pensione.

Nessuna modifica al «silenzio-assenso»
La novità non ha inciso invece sul meccanismo del silenzio-assenso: l’adesione secondo modalità tacite, quindi, comporta sempre la devoluzione integrale del Tfr. Anche tali soggetti potranno tuttavia esprimere, in un momento successivo all’adesione tacita, la volontà di devolvere al fondo di appartenenza la sola quota fissata dalle fonti istitutive; tale eventuale opzione sarà esercitabile secondo le modalità definite dalle fonti istitutive (a condizione ovviamente che gli stessi optino per il versamento al fondo anche dei contributi a loro carico).

Fip, nessuna novità
La novità, infine, non riguarda gli aderenti su base individuale i quali comunque rimangono titolari delle facoltà di versare ai fondi pensione il Tfr in misura del 100% o di non versare alcuna quota del medesimo trattamento.

La novità per i «vecchi iscritti»
Con riferimento ai soggetti lavoratori dipendenti iscritti alla previdenza obbligatoria in data anteriore al 29 aprile 1993, cosiddetti «vecchi iscritti alla previdenza obbligatoria», la Covip ha fatto notare che la normativa di settore già ammetteva la presenza di accordi collettivi che consentissero, a tali lavoratori, di versare solo una quota di Tfr.Considerato tuttavia il mutato contesto di riferimento, la Covip ritiene che a coloro che, pur in presenza dei predetti accordi, abbiano destinato a previdenza complementare l’intero importo del Tfr, possa essere oggi consentito di rivedere tale scelta, così potendo optare per il versamento dei flussi futuri di Tfr in una della misura definite dagli accordi. Resta inoltre ferma la previsione relativa al ridotto versamento, limitatamente ai vecchi iscritti alla previdenza obbligatoria, del 50% del Tfr, in presenza di accordi che nulla prevedono al riguardo. Per costoro, infatti, la mancata previsione da parte degli accordi di una quota minima di Tfr non comporterà il versamento integrale del Tfr.

La buonuscita può tornare a casa
Quanto ai lavoratori interessati alla novità, la Covip è dell’avviso che, in assenza d’indicazioni normative specifiche, essa riguardi tutti i lavoratori dipendenti che appartengono al campo di applicazione delle medesime fonti istitutive che disciplinano la percentuale minima di Tfr (e cosa importante) «a prescindere dal momento d’iscrizione alla previdenza obbligatoria o ai fondi pensione». La precisazione è importante, perché rimette in gioco anche la decisione sul destinato del Tfr dei lavoratori già iscritti ai fondi pensione. Riguardo a quest’ultimi, in modo particolare, tenuto conto della novità orientata a una maggiore flessibilità nella devoluzione del Tfr ai fondi pensione, la Covip reputa che i lavoratori che già conferiscono il Tfr in misura integrale possano rivedere la loro scelta e optare per la devoluzione, ovviamente soltanto per i flussi futuri, di una percentuale diversa dal 100%. Ciò sarà possibile, evidentemente, solo in presenza di determinazioni delle fonti istitutive che stabiliscano il versamento di una quota del Tfr in misura diversa dal 100%. Per la stessa ragione, la Covip ritiene che la scelta del lavoratore di conferire, comunque, l’intera quota del Tfr maturando, anche in presenza delle previsioni delle fonti istitutive che fissino la percentuale minima di Tfr da destinare ai fondi pensione, possa essere successivamente modificata in favore della devoluzione parziale, in costanza delle relative previsioni. In altre parole, destinazione del Tfr al fondo pensione non è più «una volta per sempre», cioè vincolante per tutta la durata dell’adesione al fondo pensione, ma è divenuta flessibile: di tanto in tanto, il lavoratore può rivedere la precedente decisione riguardo alla quantità (percentuale) di Tfr da investire nella pensione di scorta.

Nuova modulistica
La novità ha richiesto l’aggiornamento della modulistica con riguardo ai lavoratori dipendenti assunti dopo il 31 dicembre 2006, per i quali è prevista la compilazione del «modulo TFR 2» entro sei mesi dall’assunzione. Il modulo è stato aggiornato dal decreto 22 marzo 2018, pubblicato sulla G.U. n. 91/2018, che ha previsto, appunto, la possibilità di indicare in quota percentuale l’ammontare di Tfr da destinare al fondo pensione. Prima del nuovo modulo, si ricorda, la Covip aveva ritenuto possibile, nelle more proprio della revisione del modulo, di fare annotare nel modulo, a integrazione della Sezione 1, l’eventuale diversa scelta di versare il Tfr maturando nella misura definita dalle fonti istitutive.

LE PRESTAZIONI DEI FONDI PENSIONE
I fondi pensione erogano le seguenti prestazioni:
una rendita periodica (pensione integrativa);
una liquidazione in capitale (limitatamente a un importo non superiore al 50% del montante maturato sulla posizione individuale).
Ordinariamente, per ottenere la prestazione dai fondi pensione occorrono almeno cinque anni di contribuzione e l’età di pensione (quella prevista per il sistema pubblico obbligatorio delle pensioni). Tuttavia, il lavoratore (meglio è dire l’aderente perché potrebbe anche trattarsi di soggetto disoccupato o senza lavoro) può decidere di posticipare l’accesso alla pensione integrativa decidendo di proseguire volontariamente nella contribuzione. In quest’ultimo caso, di conseguenza, sarà lo stesso aderente a stabilire autonomamente il momento di fruizione della prestazione garantita dal secondo pilastro.

La rendita (o pensione)
L’erogazione della rendita avviene, ordinariamente, nell’importo determinato come vitalizia (cioè che dura finché vive l’aderente avente diritto) in base alla posizione contributiva maturata, al netto dell’eventuale quota di prestazione da erogare sotto forma di capitale.
L’aderente può, in alternativa alla rendita vitalizia immediata, richiedere l’erogazione di una rendita vitalizia reversibile, oppure di una rendita certa e successivamente vitalizia, o di una rendita differita. La prima è la rendita corrisposta finché l’aderente è in vita e successivamente, in misura totale o per una quota scelta dall’aderente stesso, alla persona o alle persone da lui designate. La seconda è una rendita che viene corrisposta per i primi x anni (da definire) all’aderente o, in caso di suo decesso, alla persona o persone da lui designate; e successivamente, se l’aderente è ancora in vita dopo gli x anni, sempre all’aderente ma sotto forma di rendita vitalizia. Infine, la rendita vitalizia differita è corrisposta all’aderente all’epoca stabilita o al raggiungimento di una certa età, successiva all’esercizio del diritto alla prestazione. Per gli ultimi tre tipi di prestazioni occorre verificarne la previsione all’interno del regolamento della forma pensionistica presso cui si sta contribuendo.

La liquidazione in capitale
L’aderente, come detto, può richiedere la liquidazione della prestazione in parte anche in forma capitale. Ciò è possibile, in particolare, nel limite del 50% (la metà) della posizione contributiva individuale maturata. Attenzione, nel calcolo dell’importo massimo erogabile in capitale sono detratte le somme erogate a titolo di anticipazione per le quali non si sia provveduto al reintegro.

Tutto in capitale
In due ipotesi è possibile la liquidazione in capitale dell’intera posizione maturata. La prima interessa tutti gli aderenti a un fondo pensione e concerne il caso in cui l’importo della rendita, calcolata sul 70% della posizione contributiva individuale, risulti inferiore al 50% dell’assegno sociale. In tal caso, dunque, l’aderente può optare per la liquidazione in capitale di tutto quanto egli ha diritto. La seconda ipotesi riguarda le condizioni soggettive di chi richiede la prestazione: se l’aderente risulta assunto in data antecedente al 29 aprile 1993 ed entro tale data iscritto a un fondo pensione istituito alla data del 15 novembre 1992 (cd «fondi preesistenti»), egli può richiedere la liquidazione dell’intera posizione contributiva maturata in capitale a prescindere da ogni altra condizione.

Il riscatto
In alcune situazioni, anziché aspettare la liquidazione di una prestazione, per l’aderente è possibile venire in possesso di ciò che egli ha accantonato presso un fondo pensione: tale procedura si definisce riscatto.
Una prima facoltà di riscatto è riconosciuto all’iscritto che non abbia maturato il periodo minimo di permanenza nella forma pensionistica complementare di due anni, necessario per il trasferimento della posizione contributiva. Il riscatto è possibile per il 50% della posizione individuale maturata, in caso di cessazione dell’attività che comporti l’inoccupazione per un periodo di tempo non inferiore a 12 mesi e non superiore a 48 mesi, ovvero in caso di ricorso da parte del datore di lavoro a procedure di mobilità, cassa integrazione guadagni, ordinaria (cigs) o straordinaria (cigs).
Altra facoltà di riscatto, per l’intera posizione previdenziale maturata (100%), è prevista n caso di invalidità permanente che comporti la riduzione della capacità di lavoro a meno di un terzo e a seguito di cessazione dell’attività lavorativa che comporti l’inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 48 mesi (riscatto non consentito se tali eventi si verificano nel quinquennio precedente la maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni pensionistiche complementari). Tale facoltà non può essere esercitata nei cinque anni che precedono la maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni o nel maggior numero di anni, fino a dieci, eventualmente stabilito dai fondi pensione, potendosi in tal caso usufruire della prestazione anticipata (legge n. 124/2017, in vigore dal 29 agosto 2017).
Ancora, la facoltà di riscatto al 100% è riconosciuta qualora vengano meno i requisiti di partecipazione al fondo pensione stabiliti dalle fonti (ccnl) che dispongono l’adesione su base collettiva (per questa tipo di riscatto occorre verificarne la previsione nel regolamento della propria forma pensionistica complementare).

Le anticipazioni
I fondi pensione contemplano una disciplina delle anticipazioni ereditata dal codice civile in materia di Tfr. In tal caso, anzi, le opportunità e la convenienza appaiono di misura maggiore, rispetto al Tfr. Infatti, è previsto che i lavoratori possono chiedere anticipazione della «posizione individuale maturata»: l’anticipazione riguarda quindi non solo il Tfr conferito nel fondo pensione, ma anche i contributi. Di conseguenza la base di riferimento è maggiore (rispetto al solo Tfr) per il calcolo dell’anticipazione. Le somme chiese e ottenute come anticipazione dai lavoratori da parte di fondi pensione non possono eccedere, complessivamente, il 75% del totale derivante dai versamenti, comprese le quote del Tfr maggiorati delle plusvalenze che sono state tempo per tempo realizzate, effettuati alle forme pensionistiche complementari a decorrere dal primo momento di iscrizione alle predette forme.
La liquidazione di un acconto è possibile alle seguenti condizioni:
in qualsiasi momento, per un importo non superiore al 75%, per spese sanitarie a seguito di gravissime situazioni relative a sé, al coniuge e ai figli per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche;
decorsi 8 anni d’iscrizione, per un importo non superiore al 75%, per l’acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile, o per la realizzazione di interventi di manutenzione, relativamente alla prima casa di abitazione;
decorsi 8 anni di iscrizione, per un importo non superiore al 30%, per ulteriori esigenze degli aderenti.
Quest’ultima ipotesi, evidenzia una seconda opportunità non prevista nella disciplina degli acconti del Tfr. Infatti, mentre i lavoratori possono richiedere all’azienda l’anticipazione del proprio Tfr se non per le ragioni previste dalla disciplina normativa, nel caso delle forme di previdenza integrativa l’acconto è possibile per qualunque esigenza del lavoratore.
Ai fini della determinazione dell’anzianità necessaria per la richiesta delle anticipazioni e delle prestazioni pensionistiche sono considerati utili tutti i periodi di partecipazione alle forme pensionistiche complementari maturati dal lavoratore per i quali lo stesso non abbia esercitato il riscatto totale della posizione individuale.

Attenzione alla reversibilità
Che succede se l’iscritto o il pensionato integrativo passa a miglior vita? Le conseguenze sono diverse: la morte dell’aderente prima di aver maturato una prestazione, infatti, comporta il diritto per gli eredi al riscatto dell’intera posizione individuale maturata (i contributi versati incluso il Tfr). Se la morte è del pensionato, invece, non sempre si determina il passaggio agli eredi della prestazione pensionistica in godimento (non c’è l’automatica reversibilità). La prestazione, infatti, passa agli eredi soltanto nei casi in cui ciò sia espressamente previsto dalla forma pensionistica complementare.
In particolare, in caso di morte dell’aderente a una forma pensionistica complementare prima della maturazione del diritto alla prestazione pensionistica, è previsto che l’intera posizione individuale maturata (cioè tutti i contributi, compreso il Tfr, e i rendimenti accumulati fino alla data di morte) sia riscattata dagli eredi ovvero dai diversi beneficiari designati dallo stesso aderente, siano essi persone fisiche o giuridiche. Nel primo caso (eredi), dunque, il diritto al riscatto spetta al coniuge, ai figli legittimi e ai figli naturali, ai figli legittimati e a quelli adottivi, e in ultima analisi agli ascendenti legittimi.
In mancanza degli eredi e in assenza pure di una designazione di altri soggetti da parte dell’iscritto, la posizione individuale maturata viene devoluta a finalità sociali secondo modalità che devono essere stabilite con decreto del ministro del lavoro se il dante causa era aderente a una forma pensionistica individuale (pip o fip). Nelle stesse ipotesi, ma nel caso di soggetti iscritti alle altre tipologie di forme pensionistiche, la posizione individuale maturata resta definitivamente acquisita dal fondo pensione.
Diversa è la situazione se a passare a miglior vita è un soggetto che già percepisce una rendita da un fondo pensione. In questo caso, infatti, il passaggio dei benefici agli eredi o, quanto meno, ai diretti congiunti è sono un’eventualità. La disciplina normativa, in particolare, stabilisce che a miglior tutela dell’aderente, gli schemi per l’erogazione delle rendite possono prevedere, in caso di morte del titolare della prestazione pensionistica, la restituzione ai beneficiari dallo stesso indicati del montante residuo o, in alternativa, l’erogazione ai medesimi di una rendita calcolata in base al montante residuale. Come si accennava, dunque, il trasferimento dei benefici agli eredi è soltanto una «facoltà» a disposizione delle forme pensionistiche complementari che possono, non devono, prevederla nei propri statuti e regolamenti. Stando sempre al dettato normativo inoltre anche quando la forma pensionistica contempli la previsione di trasferimento a terzi (si tratta di beneficiari che devono essere designati dall’avente diritto alle prestazioni), la prestazione pensionistica è comunque calcolata sul montante residuo e non sarà mai, pertanto, pari a quella già fruita dal dante causa. Come pure si tratterà del montante residuo qualora, in alternativa, si chieda la restituzione dei contributi accumulati.

IL FISCO SU CONTRIBUTI E PRESTAZIONI
Chi intende costruirsi una pensione integrativa può contare su una mano del fisco poiché le nuove regole, nel complesso, migliorano i benefici ai contribuenti, specialmente a quelli con reddito inferiore a 43 mila euro. I contributi destinati alla previdenza integrativa sono deducibili dal reddito complessivo per un importo non superiore a euro 5.164,57. Per la parte dei contributi versati che non hanno fruito della deduzione, compresi quelli eccedenti il limite di 5.164,57 euro, il lavoratore-contribuente deve dare comunicazione alla forma pensionistica complementare entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui è stato effettuato il versamento ovvero, se antecedente, alla data in cui sorge diritto alla prestazione, dell’importo non dedotto o che non sarà dedotto nella dichiarazione dei redditi. Si tratta dell’analoga comunicazione che già andava fatta con il vecchio regime fiscale, ma entro il termine del 30 settembre dell’anno successivo.
Si può fruire della deduzione fiscale, inoltre, anche per i contributi versati nell’interesse di persone a carico. La deduzione spetta al soggetto nei confronti del quale le persone sono a carico e per l’ammontare di contributi non dedotto dalle persone medesime, fermo restando il limite di euro 5.164,57.
Un regime agevolativo speciale è previsto per i lavoratori di prima occupazione successiva al 1° gennaio 2007 ai quali, in pratica, è data la possibilità di superare il limite di deduzione. Il particolare meccanismo prevede che, dopo il quinto anno di partecipazione alla previdenza integrativa, tali lavoratori possono dedurre dal reddito complessivo contributi eccedenti il limite di 5.164,57 euro pari alla differenza (positiva) tra euro 25.822,85 e i contributi effettivamente versati nei primi cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche. Questa (ulteriore) deduzione è consentita nei 20 anni successivi al quinto anno di partecipazione alla previdenza integrativa (vale a dire dal sesto fino al ventiseiesimo anno di iscrizione a una forma pensionistica complementare) e, comunque, per un importo non superiore a euro 2.582,29 annui. Ed è attuabile per un «plafond» costituito dalla differenza (se positiva) tra l’importo di euro 25.822,85 (ossia cinque volte il limite di deducibilità di 5.164,57 euro) e l’importo dei contributi effettivamente versati nei primi cinque anni di partecipazione alla previdenza integrativa. In pratica l’incentivo si concretizza nel consentire ai giovani, in caso di versamenti contributivi di importo inferiore al limite di euro 5.164,57 nei primi cinque anni di partecipazione alla previdenza integrativa, di conservare l’importo residuo delle deduzioni annuali di cui non si sono avvalsi e di utilizzarle entro i successivi 20 anni. Poiché la misura è operativa dal 1° gennaio 2007, i primi cinque anni sono scaduti il 31 dicembre 2011 e a partire da quell’anno (e per i successivi 20) è stato possibile mettere in pratica l’incentivo.

La «leva fiscale» sulle prestazioni.
È un fisco generoso quello che tassa le prestazioni delle forme previdenziali complementari. Sia in rendita, che in capitale (a scadenza o in anticipazione). Come il Tfr, anche i versamenti (Tfr più contribuzione) effettuati a una forma pensionistica complementare producono degli interessi (un guadagno) a favore dei lavoratori. Nel primo caso (Tfr), si tratta delle quote annuali di rivalutazione; nel secondo caso dei rendimenti ottenuti dai gestori specializzati, per conto della forma pensionistica complementare, dall’operazione d’investimento delle risorse finanziarie (Tfr e contributi). Tfr e forme pensionistiche complementari pagano le tasse sui rispettivi rendimenti nella stessa misura: 11% definitivo a titolo d’imposta sostitutiva.
Le prestazioni erogate dalle forme pensionistiche complementari sono soggette a due differenti regimi fiscali: il primo valido per rendite e capitale a scadenza, il secondo per il capitale in anticipo (anticipazioni).
In base al primo regime fiscale, le prestazioni integrative erogate sotto forma di rendita o come capitale a scadenza sono imponibili per il loro ammontare complessivo, al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati a imposta (cioè i rendimenti). Sulla parte imponibile è operata una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15%, ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo di partecipazione a forme pensionistiche complementari e con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali. In altre parole, le prestazioni in capitale liquidate ai lavoratori che hanno partecipato alla previdenza complementare fino a 15 anni, sono tassate al 15%; quelle dei lavoratori che hanno partecipato alla previdenza complementare per 16 anni, sono tassate al 14,70%; e via dicendo (si veda tabella).
In base al secondo regime fiscale, le prestazioni pensionistiche integrative erogate sotto forma di capitale durante la vita lavorativa seguono le seguenti regole:
sull’importo erogato a titolo di anticipazione richiesta per spese sanitarie, al netto dei redditi già assoggettati a imposta, è applicata una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15% ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali (come succede, in altre parole, nel primo regime fiscale in caso di prestazioni in capitale a scadenza e in rendita);
sull’importo erogato a titolo di anticipazione per l’acquisto della prima casa di abitazione o per la realizzazione di interventi di manutenzione, al netto dei redditi già assoggettati a imposta, si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23%;
sull’importo erogato a titolo di anticipazione per ogni altra esigenza, al netto dei redditi già assoggettati a imposta, si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23%.
Il fisco è tenero anche sulle anticipazioni. Con lo specifico regime di tassazione, infatti, è previsto che:
sull’importo erogato a titolo di anticipazione richiesta per spese sanitarie, al netto dei redditi già assoggettati a imposta, è applicata una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15% ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali (come succede per le prestazioni in capitale e in rendita);
sull’importo erogato a titolo di anticipazione per l’acquisto della prima casa di abitazione o per la realizzazione di interventi di manutenzione, al netto dei redditi già assoggettati a imposta, si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23%;
sull’importo erogato a titolo di anticipazione per ogni altra esigenza, al netto dei redditi già assoggettati a imposta, si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23%.

DA SAPERE
Tassazione con il pro-rata Per i soggetti che risultino iscritti a forme pensionistiche complementari al 1° gennaio 2007, relativamente ai montanti delle prestazioni accumulate fino a tale data continuano ad applicarsi le disposizioni fiscali previgenti (il vecchio e prima richiamato regime restato operativo fino al 31 dicembre 2006). Invece, relativamente ai montanti delle prestazioni accumulate dal 1° gennaio 2007, si applica il vigente regime fiscale più convenienteVecchi iscritti a vecchi fondiDisposizioni particolari sono previste per i lavoratori «vecchi iscritti», cioè iscritti alla previdenza obbligatoria prima del 29 aprile 1993, e che entro tale data risultino iscritti a «vecchi fondi» (o fondi preesistenti), cioè a forme pensionistiche complementari istituite alla data del 15 novembre 1992. In queste ipotesi, infatti, è previsto che si applichi interamente la vecchia disciplina fiscale, con possibilità per i lavoratori di optare per l’applicazione del nuovo regime fiscale con esclusivo riferimento ai montanti delle prestazioni accumulati a decorrere dalla data del 1° gennaio 2007. A tali lavoratori, peraltro, è concessa anche la facoltà di riscattare per interno tutta la posizione previdenziale accumulata con applicazione del regime tributario vigente alla data del 31 dicembre 2006, anche sul montante accumulato successivamente

Fisco soft anche sulla previdenza integrativa dei pubblici dipendenti
Dal 1° gennaio 2008, per effetto dell’art. 1, commi 156 e 157 della legge n. 205/2017 (legge Bilancio 2018), le regole sulla deducibilità dei contributi e sulla tassazione delle prestazioni dei fondi pensioni applicabili i lavoratori dipendenti pubblici sono diventate le medesime dei lavoratori dipendenti privati. La novità è operata con sostituzione integrale delle regole del dlgs n. 47/2000 (fondi pensioni pubblici) con quelle del dlgs n. 252/2005 (fondi pensioni privati). In base alle regole in vigore fino al 31 dicembre 2017 (dlgs n. 47/2000), i dipendenti pubblici possono dedurre i contributi versati ai fondi pensione per la previdenza integrativa fino all’importo minore tra:
– il doppio del Tfr conferito nell’anno al fondo pensione; b
– il 12% del reddito complessivo annuo dichiarato al Fisco;
c) l’importo di 5.164,57 euro (importo fisso per legge).
La tassazione dei rendimenti, invece, non ha differenze rispetto al privato: si applica l’imposta sostitutiva dell’11% sul risultato netto di gestione de periodo (anno) d’imposta considerato. La tassazione delle prestazioni, in linea generale, riguarda solo la parte che non è già stata assoggettata al prelievo fiscale (cioè i rendimenti). Le eventuali anticipazioni richieste al fondo sono soggette a tassazione separata in base all’aliquota media degli ultimi cinque anni e, in ogni caso, non inferiore all’aliquota minima Irpef (attualmente il 23%). La rendita pensionistica è soggetta alla tassazione ordinaria Irpef come reddito assimilato a quello di lavoro dipendente. La prestazione in forma di capitale è soggetta a tassazione separata con aliquota media degli ultimi cinque anni; lo stesso le somme erogate a titolo di riscatto in caso di morte dell’iscritto, nonché in caso di riscatto per perdita dei requisiti di partecipazione al fondo pensione che non dipenda dalla volontà del lavoratore iscritto. Dal 1° gennaio 2018 (versamenti effettuati a partire da tale data) i contributi sono deducibili dal reddito complessivo per un importo non superiore a euro 5.164,57. Per la parte versata e non dedotta, compresa quella eccedente il predetto limite di 5.164,57, il lavoratore è tenuto a darne comunicazione al fondo pensione entro il 31 dicembre dell’anno successivo al fine di escludere dalla tassazione la futura relativa quota di rendita. La stessa deduzione fiscale è riconosciuta anche per i contributi versati nell’interesse di persone a carico fiscalmente. Un regime agevolativo speciale è previsto per i lavoratori di prima occupazione dopo il 1° gennaio 2007 ai quali, in pratica, è data la possibilità di superare il limite di deduzione (5.164,57). Il Fisco è generoso anche sulle prestazioni con un regime che prevede, in linea generale, l’applicazione della ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15%, ridotta di una quota pari a 0,3% per ogni anno eccedente il quindicesimo di partecipazione alla previdenza integrativa e fino a un massimo di riduzione di 6 punti percentuali. In alcune ipotesi (anticipazione prima casa, ecc.) si applica la ritenuta del 23%.

LA RITA – RENDITA INTEGRATIVA EMPORANEA ANTICIPATA
Introdotta dalla legge di Bilancio 2017 nell’ambito delle misure di prepensionamento, la Rita offre ai lavoratori (ovviamente iscritti alla previdenza integrativa) la possibilità di avere una «rendita temporanea» dal proprio fondo pensione. La misura, originariamente, faceva il paio con l’Ape sociale, tanto che doveva trovare applicazione in via sperimentale per uno stesso periodo temporale, cioè dal 1° maggio 2017 fino al 31 dicembre 2018, in presenza degli stessi requisiti. Successivamente è intervenuta la legge Bilancio 2018 (legge n. 205/2017) che l’ha resa strutturale, senza più una scadenza temporale. Con la Rita diventa possibile mettersi in pensione a 57 anni. Non si tratta di un vero e proprio pensionamento, ma della facoltà di ricevere una «rendita integrativa temporanea anticipata» (è l’acronimo di Rita): l’erogazione anzitempo, cioè, di quanto un lavoratore ha versato e accumulato presso un fondo pensione. Condizione basilare è la perdita di un posto di lavoro; in tali casi, la Rita può essere richiesta fino a 5 anni prima della maturazione dell’età per la pensione di vecchiaia (66 e 7 mesi nel 2018) e addirittura fino a 10 anni prima (dunque a 57 anni circa) qualora si è disoccupati da oltre 24 mesi. Le istruzioni operative, per il momento, sono state fornite dalla Covip con la circolare n. 888/2018.

Beneficiari
La Rita si rivolge ai lavoratori che sono iscritti alla previdenza integrativa e, precisamente, ha sottolineato la Covip, a quelli iscritti alle forme pensionistiche complementari (altro modo per indicare i fondi pensioni) in regime di contribuzione definita (in tal caso si sa quanto si paga di contributi, ma non si sa precisamente quanto sarà la prestazione). Ne sono esclusi, pertanto, i lavoratori iscritti a fondi pensione in regime di prestazione definitiva (nei quali, invece, si sa quale sarà la prestazione, mentre non è fissa la contribuzione).

Solo «lavoratori»
Secondo la Covip, inoltre, considerato che la disciplina normativa (e precisamente il comma 4 e il comma 4-bis dell’art. 11 del dlgs n. 252/2005) prevede che la Rita spetti ai «lavoratori» che abbiano cessato l’attività lavorativa o che siano rimasti inoccupati (oltre che in possesso di altri requisiti), la prestazione può essere riconosciuta solo agli iscritti a fondi pensioni che siano titolari di reddito di lavoro.

I requisiti a due vie
Finalità della Rita è offrire ai lavoratori un sostegno finanziario, in attesa della maturazione dei requisiti per la pensione pubblica obbligatoria (quella dell’Inps o altro ente previdenziale obbligatorio). Ci sono due vie alternative (o l’una o l’altra), con specifici requisiti, per ottenere la Rita, con la precisazione che gli alternativi requisiti devono essere posseduti al momento della presentazione della domanda di Rita:
A Prima ipotesi:
cessazione attività lavorativa
maturazione età per pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio entro 5 anni dalla cessazione dell’attività lavorativa
possesso di almeno 20 anni di contributi per la pensione pubblica obbligatoria
possesso di almeno 5 anni di contributi per la pensione privata integrativa
B) Seconda ipotesi:
cessazione attività lavorativa
maturazione età per pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio entro 10 anni dalla cessazione dell’attività lavorativa
inoccupazione di oltre 24 mesi, dopo la cessazione dell’attività lavorativa
possesso di almeno 5 anni di contributi per la pensione privata integrativa

Basta un’autocertificazione
Per provare il possesso del requisito contributivo minimo di 20 anni nei regimi obbligatori si può fare ricorso all’estratto conto integrato (Eci), rilasciato dal casellario dei lavoratori attivi dell’Inps e accessibile online dal sito dell’Inps, oppure gli estratti conto rilasciati dagli enti previdenziali di appartenenza dei lavoratori richiedenti. La Covip lascia ferma la possibilità, ai sensi del Dpr n. 445/2000, di far ricorso anche all’acquisizione di dichiarazioni sostitutive da parte dei lavoratori (cioè di autocertificazioni sottoscritte dal lavoratore richiedente); ciò, a patto che sia espressamente consentito dal fondo pensione. In questi casi, tuttavia, la Covip invita anche i fondi pensioni a fare opportune verifiche, anche a campione, delle dichiarazioni sostitutive presentate in considerazione dell’importanza attribuita al requisito contributivo. Anzi, per organizzare al meglio i controlli, la Covip invita ad acquisire, contestualmente alla presentazione della dichiarazione sostitutiva, l’impegno scritto da parte del dichiarante a produrre, in caso di richiesta da parte del fondo pensione, la documentazione necessaria a comprovare le dichiarazioni rese in autocertificazione.

Il riferimento è alla «pensione di vecchiaia»
Come detto, tra i requisiti di accesso alla Rita c’è la prossimità (rispettivamente di 5 o 10 anni) alla maturazione dell’età anagrafica per la pensione di vecchiaia, quale prevista al momento della presentazione dell’istanza sulla base delle disposizioni di legge tempo per tempo vigenti. Sul punto la Covip ha precisato che i requisiti per la Rita maturano solamente con riferimento alla predetta tipologia di trattamento pensionistico (cioè «pensione di vecchiaia»), escludendo la possibilità che possa prendersi in considerazione la prossimità ad altri tipi di pensione o a eventuali pensionamenti anticipati. Praticamente, dunque, nel 2018 il requisito di prossimità (entro 5 anni ovvero entro 10 anni dalla cessazione dell’attività lavorativa) va riferito alla maturazione dell’età di 66 anni e 7 mesi fissata per la pensione di vecchiaia; nel 2019, lo stesso requisito andrà riferito alla maturazione dell’età di 67 anni, quale sarà l’età per la pensione di vecchiaia, a seguito dell’incremento della «speranza di vita» di cinque mesi.

Quanto vale la rendita
La Rita, praticamente, è l’erogazione frazionata del montante accumulato nel fondo pensione dal lavoratore. Spetta a quest’ultimo decidere quanta parte del montante trasformare in Rita e anche il periodo di erogazione, che va dalla richiesta fino alla pensione Inps per una durata. Per quanto riguarda la periodicità del frazionamento, la Covip rimette la decisione ai fondi pensione mediante suggerimento, ai lavoratori, di più opzioni alternative tra le quali scegliere e che meglio possano rispondere alle diverse esigenze dei lavoratori. In ogni caso, tenuto conto della funzione della Rita, che è volta ad assicurare una misura di sostegno al reddito dei lavoratori non occupati e come tale fruibile con cadenza ravvicinata, la Covip ritiene che l’erogazione della rendita debba avere una periodicità non superiore ai tre mesi. In merito al montante destinabile alla Rita, la Covip ritiene che spetti al lavoratore richiedente valutare quanta parte del montante accumulato impegnare a tale titolo, potendo la stessa gravare sull’intero importo della posizione individuale o anche soltanto su una sua porzione. I fondi pensioni devono pertanto consentire al lavoratore di esprimere una scelta che sia quella ritenuta più opportuna in merito alla percentuale di smobilizzo della posizione accumulata.

Il montante resta nel fondo pensione
Nell’ottica di favorire la gestione attiva della posizione individuale accumulata anche nel corso di erogazione della Rita, la Covip ha stabilito che la porzione di montante del quale si chiede il frazionamento continui ad essere mantenuta in gestione, così da poter beneficiare anche dei relativi rendimenti. Le rate da erogare, pertanto, saranno ricalcolate tempo per tempo al fine di tenere conto dell’incremento o della diminuzione del montante derivante dalla gestione. Salvo diversa volontà dell’iscritto, da esprimersi al momento della richiesta, tale montante dovrà essere riversato nel comparto del fondo pensione più prudente, che sarà individuato dal fondo pensione stesso. Nel «modulo di domanda per l’erogazione della Rita», pertanto, va indicato il comparto cui affluisce, in assenza di diverse indicazioni, l’ammontare oggetto di frazionamento e va evidenziato anche che l’importo della rata potrà subire variazioni, anche in negativo, in conseguenza dell’andamento dei mercati finanziari. In considerazione di tanto, durante l’erogazione della Rita il lavoratore può esercitare la facoltà di cambiare il comparto d’investimento del residuo montante a ciò destinato, secondo le modalità definite dal fondo pensione di appartenenza.

Chi eroga la Rita
Considerate le caratteristiche della prestazione, che consistono nell’erogazione di un capitale, frazionato, in un arco temporale predefinito che al massimo può risultare di 10 anni, la Covip ha espresso parere che rientri nella competenza dei fondi pensioni procedere direttamente all’erogazione della Rita.

Rita impignorabile
Essendo una prestazione di previdenza complementare, seppur anticipata e sottoposta a requisiti diversi rispetto alla prestazione ordinaria (cioè alla pensione integrativa), alle rate della Rita si applicano i limiti di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità previsti per la «pensione integrativa ordinaria» (ex art. 11, comma 10, del dlgs n. 252/2005. In particolare, ferma restando l’intangibilità delle posizioni individuali costituite presso i fondi pensioni nella fase di accumulo, la Rita è soggetta agli stessi limiti di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità vigenti per le pensioni pubbliche. Si ricorda, invece, che i crediti relativi alle somme oggetto di riscatto totale e parziale non sono assoggettate ad alcun vincolo di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità.

Il trasferimento ad altro fondo
L’accesso alla Rita non limita la facoltà dei lavoratori al trasferimento presso un altro fondo pensione. Tuttavia, nell’ipotesi di esercizio di tale facoltà, il trasferimento dovrà riguardare l’intera posizione individuale contributiva e, quindi, anche la parte impegnata a titolo di Rita; di conseguenza, la Rita sarà necessariamente (e automaticamente) revocata.

Se la Rita non prende tutto
Nel caso in cui non sia utilizzata tutta l’intera posizione individuale costituita presso un fondo pensione per l’erogazione della Rita, sulla porzione residua di tale posizione individuale (che continuerà ad essere gestita dal fondo pensione) l’iscritto può chiedere anticipazioni e riscatti in base alle norme vigenti e fruire al momento della maturazione dei requisiti pensionistici ordinari delle prestazioni in capitale e/o rendita. Con riferimento alle prestazioni ordinarie (pensione integrativa ordinaria), è previsto che, ai fini della richiesta in rendita e in capitale del montante residuo, non rileva la parte di prestazione richiesta a titolo di Rita. Per l’individuazione dell’importo massimo di prestazione erogabile in capitale, pertanto, i fondi pensione devono prendere in considerazione la posizione individuale esistente al momento della relativa richiesta.

Quando si passa a miglior vita
In caso di decesso del lavoratore iscritto al fondo pensione, mentre è in corso di fruizione di Rita, il residuo montante contributivo corrispondente alle rate non erogate, ancora in fase di accumulo, può essere riscattato.

I costi? Solo in misura fissa
Qualora siano previsti costi da addebitare per l’erogazione della Rita, gli stessi devono essere chiaramente esplicitati nella documentazione del fondo pensione. I relativi importi sono espressi in cifra fissa e devono comunque essere contenuti e strettamente limitati alle spese amministrative effettivamente sostenute.

Comunicazione annuale
I lavoratori che fanno richiesta di Rita ricevono, annualmente, una comunicazione specifica in merito alle rate erogate, nonché informazioni dettagliate relativamente alle operazioni fatte nel corso dell’anno, con indicazione dei pagamenti rateali ricevuti, con la data delle relative operazioni e le eventuali spese addebitate per l’erogazione della rata. Vengono anche fornite le informazioni sull’ammontare dell’imposta applicata, nonché i numeri delle rate residue e la periodicità delle stesse.

Regime fiscale agevolato
La parte imponibile della rendita temporanea erogata è assoggettata a una ritenuta a titolo d’imposta con un’aliquota pari al 15% che si riduce dello 0,30% per ogni anno eccedente il 15° anno di partecipazione alla previdenza complementare, fino a un minimo del 9%

Fonte:
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