di Renato Giallombardo*
«I soldi ci sono ma vengono spesi male». Proviamo a dare una risposta critica e non banale allo sperpero delle risorse finanziarie pubbliche e private in Italia, che è certamente dovuto a errate scelte politiche. Sicuramente causato dalla corruzione e indubbiamente indotto dall’autoreferenzialità del sistema bancario e finanziario, nonché dai finanziamenti a pioggia e dalle politiche di investimento non selettive. Ma un peso ce l’ha anche l’assenza di una diffusa e consapevole educazione finanziaria. Al netto di tutto questo, ci sono però almeno altri tre fattori che condizionano l’impiego del capitale in Italia. Anzitutto, il gigantesco conflitto di interessi generato dall’introduzione del modello di banca universale, che ha progressivamente indotto il sistema bancario a concedere denaro sulla base delle commissioni più che sulla reale valutazione dei progetti presentati. Chiudere un deal, firmare una polizza, collocare un prodotto, approvare un investimento è stato ed ancora è molto più rilevante del cosa sia l’oggetto dell’investimento stesso o di come siano investite le risorse. È proprio sul sistema commissionale che si è avvitato il sistema finanziario. Sull’ultimo anello della catena del valore, laddove il lavoro è parte infinitesimale nella generazione del profitto. È proprio sulle commissioni versate per il collocamento dei prodotti finanziari, sull’intermediazione delle operazioni di investimento, sulla stipula di un finanziamento o di un consorzio di garanzia per una quotazione, il cuore del gigantesco conflitto di interessi endemico alla struttura della banca universale, propagatosi in sequenza anche a tutti gli altri protagonisti dell’intermediazione finanziaria. In secondo luogo, il costante flusso di esportazioni dei capitali italiani all’estero. Le risorse finanziarie private del Paese viaggiano massicciamente verso altri lidi. Nostro dovere è fermare questo ininterrotto deflusso di risorse finanziarie. Processo questo, largamente condizionato da advisor, banche internazionali e boutique finanziarie. Questi operatori determinano la rotta degli investimenti degli italiani dirottandoli su economie reali e finanziarie estere, promuovendo la sottoscrizione di fondi di investimento internazionali, preferendoli a gestori e fondi italiani, giustificando e spesso imponendo le scelte alla luce di una presunta prassi di mercato globale e di un dominante ius finanziario internazionale. Meno lavoro e commissioni più alte. La materia prima di una finanza che da troppo tempo ha perso la sostanza e la vocazione al sostegno dell’impresa e del lavoro, che non ha saputo comprendere i cambiamenti epocali dell’innovazione tecnologica e digitale e che non ha guardato al processo di rinnovamento infrastrutturale del Paese. Continuando però a prosperare sui rendimenti certi dei conti energia e dei monopoli di Stato. Un esempio. Degli 800 miliardi gestiti da enti previdenziali e assicurativi, la quasi totalità è investita all’estero su mercati e borse internazionali. Una parte meno rilevante in immobili e fondi immobiliari e meno del 3% nell’economia reale dell’Italia. Dopo aver spolpato il sistema bancario italiano, le multinazionali finanziarie provano a blindare un’altra provvista, cioè le risorse del welfare, della previdenza, della sanità. Il tutto tenendo accuratamente fuori la piccola e media impresa non quotata, i giovani, la ricerca, l’innovazione, le infrastrutture strategiche nazionali e locali, le start up e gli spin off di ricerca universitari, la robotica, la meccatronica, il medtech, l’intelligenza artificiale e il machine learning. Sono questi i campi sui quali Francia, Germania e Regno Unito investono annualmente dai 2 ai 5 miliardi di euro, mentre il nostro Paese non riesce a superare i 200 milioni. Se si vuole mettere in cantiere un programma d’investimenti per l’Italia bisogna partire anche da qui. Infine, ma non certo in ordine d’importanza, c’è da sottolineare un ulteriore aspetto: alla finanza manca qualità. E con questo s’intende che la finanza non si è mai evoluta nella sua dimensione qualitativa, schiacchiata dal Quantitative easing e dalla ricerca di tassi di rendimento a prescindere. E non basta certo evocare il bilancio sociale o l’impact investment essendo rimasta ancorata a una metrica convenzionale basata sull’interesse quale ritorno interno del capitale senza che si analizzi in alcun modo la qualità, il come siano investite le risorse e si dimostrino chiaramente i risultati sociali e il percorso di generazione di quel rendimento. Senza che quindi la misurazione della sua performance riconosca alcuna qualità. Si tratta di un aspetto cruciale che incrocia le aspettative di chi risparmia e conferisce denaro per il proprio futuro e l’obbligo di rispetto delle comunità rappresentate per chi investe. (riproduzione riservata)
*partner, Gianni Origoni Grippo Cappelli & Partners
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