di Gianemilio Osculati
Quella che era l’ultima area di business con buoni margini di profitto per il sistema bancario si sta silenziosamente ma velocemente avviando a diventare un problema. Il modello tradizionale di consulenza alla gestione del risparmio della clientela è entrato in una crisi quasi irreversibile e deve essere sostituito da un modello più adatto ai tempi.
Per molti anni la costruzione di un portafoglio per la clientela si è basata su un bilanciamento della composizione di azionario e obbligazionario, fatto in funzione dell’appetito di rendimento e della tolleranza al rischio dell’investitore, cercando così di ottenere, come risultato finale, un rendimento medio atteso positivo e una volatilità possibilmente non eccessiva. Anche la dottrina degli ultimi decenni ha benedetto, all’unisono, il metodo di bilanciamento, anche dinamico, tra strumenti azionari e strumenti di debito. Oggi questo non è più possibile: l’obbligazionario, titoli governativi in primis, dà spesso rendimenti negativi o comunque molto bassi (il rischio Francia a 5 anni rende prima delle commissioni di gestione un -0,10/-0,15%, quello Italia lo 0,35/0,40 %!), mentre l’azionario è molto costoso e volatile, non sconta ancora il pericolo di un trend di stagnazione secolare né, dall’altro lato, il pericolo di un aumento significativo dei tassi di interesse; comunque tutti gli indicatori mostrano che nelle economie avanzate l’incidenza dei profitti aziendali è al punto superiore del ciclo. Per quanto si cerchi in un qualsiasi portafoglio di bilanciare azionario e obbligazionario, se gli ingredienti sono questi il risultato che si può ottenere in prospettiva non può che essere negativo, o per redditività o per volatilità o per entrambi gli aspetti.
Sono brutte notizie per il risparmiatore. I rendimenti negativi costituiscono una nuova potentissima tassazione sul risparmiatore (l’aliquota è oltre il 100%) e avviano un silenzioso ma imponente trasferimento di valore dallo stesso risparmiatore al settore pubblico e alle aziende prenditrici. Il solo trasferimento di valore dai risparmiatori al settore pubblico per effetto di tassi artificiali, quali quelli oggi esistenti sul debito pubblico italiano, sta tendenzialmente avvicinandosi ai 100 miliardi l’anno. Questo è il controvalore di cinque/dieci finanziarie di una certa robustezza in un solo anno, tutte pagate dallo stesso contribuente finale, il risparmiatore. L’azionario, l’altra componente tradizionale di un portafoglio, non viene in aiuto. Anche se si tralascia per un momento il tema della redditività prospettica di un investimento effettuato oggi in una situazione in cui, a livello mondiale, si è tuttora a molto vicini ai massimi di mercato degli indici azionari e ai minimi storici nella struttura dei tassi di interesse, la sola volatilità dei corsi espressa dai mercati rende praticamente inaccessibile questo strumento.
In tutta questa situazione, totalmente senza precedenti ma comunque presente già da un po’ di tempo, che cosa fanno gli attori principali del mercato? Difficile dire che si muovano bene.
Da una parte, risparmiatori continuano a risparmiare ma, incapaci di costruirsi da soli un portafoglio interessante allorché i tassi sono vicini a zero o negativi, pensano che la soluzione sia il ricorrere alla raccolta gestita: sperano di spossessarsi del problema trasferendolo al gestore. Qualcuno, ma il numero è ormai in crescita, passa al promotore, operatore un po’ più aggressivo. In entrambi i casi però il risparmiatore si carica di commissioni passive. Una commissione di gestione dell’1% anni fa poteva incidere per circa il 10% dei rendimenti lordi attesi di un portafoglio, mentre oggi rischia di incidere per oltre il 100%. Se l’advisor scelto è il promotore, la commissione passiva pagata è più alta di quella richiesta allo sportello.
Dall’altra parte, le autorità preposte al controllo della gestione del risparmio latitano, ben felici di aver ormai proibito quasi qualsiasi tipo di operatività a rischio per non prendersi delle responsabilità. Chi fosse ben preparato sui temi del risparmio e volesse costruirsi un portafoglio tranquillo presso una banca (dove i costi sono tutto sommato bassi) e un portafoglio aggressivo presso un intermediario più specializzato non lo potrebbe fare, perché la Mifid proibisce al secondo intermediario di operare. L’intermediario che suggerisse anche solo per il 5-10% del portafoglio complessivo di un cliente normale un investimento minimamente rischioso per migliorare il rendimento atteso, farebbe bene a tremare, perché anche per piccoli default, sia pure controbilanciati da un portafoglio nel complesso redditizio, potrebbe essere chiamato in causa.
Ma l’aver proibito l’ottenimento di rendimenti positivi negli attuali frangenti non è l’unico valore aggiunto delle autorità preposte: le commissioni praticate sulla raccolta gestita dai vari asset manager sono legate al rischio del sottostante, per dettame espresso. Ma il rischio lo corre il cliente, non il gestore! Un forte conflitto di interessi è palesemente presente: far passare un cliente da un portafoglio aggressivo a uno prudente, quando il contesto lo suggerisse, avrebbe un costo enorme sia per l’intermediario che presta la consulenza al cliente sia per l’asset manager che gestisce i prodotti, perché il calo del gettito commissionale sarebbe enorme per entrambi. Ma c’è di più: alle giovani generazioni, che hanno davanti a sé un orizzonte di 30-40 anni e per le quali è logico che si prendano i rischi della volatilità a breve per migliorare i rendimenti a scadenza, nessuno mai si sognerà di indicare la strada giusta: non essendo «competenti» ai sensi della Mifid, sono condannati a soffrire di prodotti non redditizi. È una palese assurdità. Tutto questo vuol dire impoverire una nazione. Un vantaggio avevamo sull’Europa: la maggior ricchezza familiare. Ora la Germania ci ha sorpassato. Con le regole attuali c’è da prepararsi già da ora a scendere alle ultime posizioni.
Gli intermediari e gli asset manager a monte sembrano incuranti di quanto succede. Allo sportello le competenze sono limitate e i prodotti della raccolta gestita sono quelli di sempre. Ben sapendo di non poter costruire portafogli minimamente redditizi nei frangenti di oggi, lo sportello sbarca il problema sulle spiagge dell’asset manager, suggerendo i prodotti della gestita. L’asset manager a sua volta sbatte la testa contro il set di vincoli nel quale è costretto a operare e fideisticamente continua nel suo operato di decidere quanto azionario e quanto reddito fisso mettere nei prodotti, sperando che si torni rapidamente ai mercati che furono. Cosa che non sarà. Così non si risolve il problema, per certo.
Come uscirne? Siamo veramente condannati tutti alla povertà di medio periodo? Non proprio, qualcosa si può fare. Ecco le primissime cose da fare, con una certa urgenza:
1. occorre, inderogabilmente, che i gestori siano significativamente investiti personalmente nei prodotti che essi stessi gestiscono. Forse è essere troppo esigenti, ma il saper che chi oggi gestisce i vostri soldi non corre lo stesso vostro rischio e preferisce investire in tutt’altro è fonte di grandissima insoddisfazione. Private equity e hedge fund hanno già mostrato la strada: da loro il gestore deve essere investito personalmente nel fondo che egli gestisce. Basta copiare;
2. occorre anche che, per una vasta gamma di prodotti di gestita offerti alla clientela, la società di asset management che li propone si impegni a investire una parte dei propri capitali. Anche in questo caso l’industria dei private equity e degli hedge fund ha aperto la strada: una buona parte del bilancio delle partnership di private equity è investito nei propri prodotti;
3. occorre che Consob permetta la costruzione di prodotti per le generazioni più giovani (fino a 45-50 anni, per intendersi) a un livello di rischio molto maggiore rispetto alla profilatura Mifid, accompagnandone la creazione con le necessarie misure di salvaguardia. Non è sempre vero che chi sa può rischiare e chi non sa non deve rischiare: così si condanna alla povertà il 90-95% della popolazione. A che serve la consulenza, se non a gestire questo aspetto e a colmare il gap conoscitivo? Chi è più giovane può rischiare di più, almeno come regola generale, accompagnato naturalmente da una buona consulenza e da un’elevata diversificazione effettiva del portafoglio;
4. occorre abbandonare rapidamente il legame pernicioso che associa le commissioni di gestione più elevate al maggior rischio del sottostante: così si creano soprattutto enormi conflitti di interesse, come già detto. Occorre svegliare l’industria dell’asset management e chiedere in abbondanza prodotti ad asset allocation centralizzata e dinamica, nei quali i cambiamenti di mix non determinino cambiamenti delle commissioni né dell’asset manager né dell’intermediario, ma siano solo il risultato dell’adeguarsi a mutate prospettive di mercato. La strada alternativa della consulenza a pagamento, assai ben vista dalle autorità regolatorie, nasce con fini nobili ma alla fine produce scarsa trasparenza: non si comprende più quale consulenza sia la migliore perché i confronti non sono possibili. Il mondo dei prodotti è trasparente perché le performance di prodotti simili sono confrontabili, mentre il mondo della consulenza non è trasparente perché la performance di ogni portafoglio è un caso a sé;
5. occorre infine permettere agli asset manager e alle reti di distribuzione di realizzare e collocare prodotti redditizi. Il cliente che vuole ottenere ritorni positivi oggi deve accettare minore liquidabilità dell’investimento o assumere un rischio di credito, sia pure diversificato. Su entrambi i fronti l’attuale regolatore sembra fortemente contrario. Così però si diventa poveri.
La ricchezza accumulata nel tempo dalle famiglie italiane è una ricchezza della nazione. Con un po’ di amore e di determinazione si può conservare e sviluppare. Oggi come oggi siamo sulla strada sbagliata. (riproduzione riservata)
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