di Francesco Colamartino
Un fattore tripla C per investire in Africa: commodity, Cina e capitali esteri. Secondo quanto riporta lo studio di Sace Il miracolo economico africano: This is (not) the end. L’impatto del fattore C3 sulle economie africane e sulle opportunità per l’Italia, le tre variabili fanno sì che non si possano prendere i 49 Paesi dell’Africa Subsahariana in blocco e affermare che il miracolo economico africano, alla luce di uno dei tassi di crescita tra i più bassi degli ultimi tempi, sia arrivato al capolinea.

Nel 2015 il pil dell’Africa subsahariana è cresciuto del 3,4%, il ritmo più basso registrato dal 2000, e le previsioni per quest’anno sono di un ulteriore rallentamento dell’attività economica intorno al 3%, in attesa della ripresa a partire dal 2017-18. L’export totale dipende per circa i due terzi dalle risorse energetiche e minerarie e dai metalli, rispetto al 16% di manufatti e al 10% di prodotti agricoli. Gli eccessi di offerta, le incertezze sulla domanda dei principali mercati emergenti e un dollaro più forte continuano a spingere al ribasso i prezzi delle materie prime e a pagarne le conseguenze sono soprattutto i Paesi africani esportatori di petrolio e gas, in particolare Nigeria e Angola, ma anche Congo, Gabon e Guinea Equatoriale. Altri Paesi, come Botswana, Sudafrica, Zambia, Guinea, Liberia e Sierra Leone, hanno dovuto fare i conti con il deterioramento dei prezzi delle risorse minerarie non energetiche da loro esportate, tra cui ferro, rame, diamanti e platino.

Il secondo fattore C è la Cina, che dal 2011 è il primo partner commerciale della regione. Oggi gli scambi commerciali sino-africani valgono circa 200 miliardi di dollari, un livello quattro volte superiore a quello dell’interscambio con gli Stati Uniti. La spinta di Pechino su una crescita interna più legata a consumi e servizi si è perciò tradotta in un calo dell’import dal subcontinente africano, in particolare di risorse energetiche e minerarie. A soffrirne di più sono quelle economie che si trovano, per scelta o necessità, a dipendere per gran parte delle loro vendite dal mercato cinese, con quote anche superiori al 40% dell’export nazionale, come l’Angola, la Sierra Leone, la Mauritania, lo Zambia o la Repubblica Democratica del Congo.

Terzo e ultimo fattore C, quello dei capitali esteri. Negli anni passati, la ricchezza di materie prime e i rendimenti finanziari positivi avevano attratto in Africa Subsahariana le grandi multinazionali e gli investitori internazionali. Oggi, nel quadro di bassi prezzi delle commodity e di un graduale rafforzamento del dollaro, i flussi dei capitali internazionali verso la regione sono progressivamente in diminuzione. Tra le spiegazioni, una minore propensione delle banche europee all’attività di credito nella regione, ma anche un calo delle emissioni di eurobond da parte dei Paesi africani, scese a 9,2 miliardi di dollari rispetto ai 12,9 miliardi di dollari del 2014. Il numero di emissioni è diminuito soprattutto perché gli spread sui rendimenti sono arrivati a superare in alcuni casi il 10%. Il mercato dei capitali internazionali sconta quindi un rischio maggiore che i Paesi africani non onorino le proprie obbligazioni, tanto che dall’inizio del 2016 non ci sono state nuove emissioni di eurobond da parte di Paesi dell’area subsahariana.

Questo triplice mix di difficoltà è così tornato a proiettare sulla regione l’ombra dell’insostenibilità del debito estero. Negli ultimi anni numerosi Paesi hanno accumulato nuovo debito, anche a condizioni meno agevolate rispetto al passato, poiché contratto sul mercato dei capitali internazionali (attraverso emissioni di eurobond) o su base bilaterale, tramite accordi con Paesi asiatici. In questo quadro tre sono gli effetti negativi sull’attività degli esportatori e investitori italiani nell’area Subsahariana. «In primo luogo, in caso di accordi commerciali o partnership finanziarie non ancora siglati, ci si può imbattere in rallentamenti o rinvii delle negoziazioni, sia con il settore pubblico che con le controparti private», spiega Alessandro Terzulli, capo economista di Sace, a MF-Milano Finanza, «se i contratti sono già in essere, invece, l’attenzione va posta sulle maggiori difficoltà nell’onorare i pagamenti da parte dei clienti africani, tenuto conto della minore disponibilità di valuta forte. La carenza valutaria ha, inoltre, ripercussioni anche sull’attività degli investitori italiani, che possono registrare ritardi o addirittura non riuscire a convertire e trasferire i propri profitti all’estero».

Il rallentamento economico dell’Africa subsahariana ha avuto un impatto anche sull’attività commerciale delle imprese italiane nella regione. Nel 2015 l’export italiano verso l’area si è, infatti, fermato a 5,7 miliardi di euro, in calo del 7,9% rispetto all’anno precedente, e le previsioni di Sace indicano per il 2016 un’ulteriore flessione dell’export italiano verso l’area. Ma nel 2015 sono, infatti, cresciute a doppia cifra le vendite italiane verso quelle economie meno dipendenti dai tre fattori, come ad esempio Costa d’Avorio (che con un +59% diventa il terzo mercato di destinazione nell’intera Africa subsahariana), Kenia, Senegal, Tanzania e Ruanda.
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