di Marino Longoni

La legge Cirinnà ha disciplinato, a fianco del matrimonio, altre tre forme di relazioni personali: la convivenza di fatto, il contratto di convivenza e le unioni civili. Le prime due sono pensate per coppie eterosessuali o omosessuali, la terza invece è riservata agli omosessuali. La convivenza di fatto garantisce il massimo di libertà e il minimo di diritti/doveri: la legge Cirinnà si limita a riconoscere ai partner una serie di facoltà finora individuate solo a livello giurisprudenziale, come il diritto di visitare il convivente in carcere o in ospedale, o designarlo come rappresentante per le scelte più delicate in caso di malattia grave o morte, o i diritti di abitazione nella casa comune o la partecipazione agli utili dell’impresa familiare. Non si introduce nessun obbligo ma semplici facoltà, esercitabili o meno. L’unico rischio di «trovarsi sposato a propria insaputa», come fatto notare in modo colorito da qualcuno, è legato alla possibilità, per la parte che dovesse trovarsi in stato di bisogno al momento della rottura della relazione, di chiedere al giudice gli alimenti, ma solo per un periodo proporzionato alla durata della convivenza: sono però situazioni estreme, in cui uno dei partner non è in grado di mantenersi perché impedito da grave malattia, o dalla cura dei figli. Non prevedere l’obbligo alimentare neanche in questi casi, in nome della libertà assoluta, avrebbe reso disumano un rapporto che, il più delle volte, ha le radici nell’affettività e nel mutuo sostegno. Ma la convivenza non crea una nuova famiglia: è una situazione riconosciuta come tale nel momento in cui i partner dichiarano la residenza in comune. I conviventi possono (anche questa è una facoltà) stipulare un contratto di convivenza davanti a un avvocato o un notaio «per disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune»: il contratto sarà opponibile a terzi, perciò va trasmesso all’anagrafe del Comune di residenza. L’accordo non potrà prevedere condizioni ma si potrà sciogliere con semplice atto scritto, anche unilaterale, ricevuto da avvocato o notaio. La convivenza tra persone etero o omosessuali non dà mai diritto alla pensione di reversibilità, riconosciuta invece agli omosessuali che costituiscono unione civile. Mentre la convivenza è imperniata sulla volontà delle parti di avere massima libertà, l’unione civile è modellata in gran parte sui diritti e doveri dei coniugi. Le sole differenze sono: la mancata esplicita previsione della stepchild adoption (ma la giurisprudenza ha già consentito l’adozione del figlio del partner in coppie omosessuali), e la mancanza dell’obbligo di fedeltà (già molto diluito). Per il resto l’unione civile si richiama ai rapporti coniugali, salvo ovviamente che la prima è riservata agli omosessuali mentre il matrimonio lega un uomo e una donna. Restano fuori alcuni scampoli normativi in materia penale come la mancata equiparazione nei reati di falsa testimonianza, abuso d’ufficio o omicidio del coniuge. Ma sono dettagli di scarso effetto pratico, facilmente superabili con interventi correttivi, previsti dal comma 28 della Cirinnà. (riproduzione riservata)
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