di Avv. Gianluca Messercola

Non vince nessuno o, come spesso accade in tali occasioni, vincono tutti, perché la Suprema Corte a Sezioni Unite, chiamata a dirimere quel contrasto giurisprudenziale – a forte impatto sociale oltre che dottrinario – sulla validità o meno della clausola c.d. claims made, tenta di comporre la diatriba ma, invero, muta solo lo scenario dello scontro.

Sgombriamo, innanzitutto, il campo da facili trionfalismi che in questi giorni aleggiano tra le diverse fazioni, il risultato che si ha con la sentenza n. 9140 del 6 maggio 2016, è un arresto giurisprudenziale ancora una volta, a sommesso avviso di chi scrive, parziale, che a ben vedere dirime – senza ombra di dubbio – un aspetto delicato dello scontro circa il tema della vessatorietà della clausola, ma lascia aperte, o meglio riapre, tematiche sulla possibile declaratoria di nullità, tali da non poter far ritenere compiutamente sdoganata la piena legittimità delle clausole claims made.

Il principio che ne scaturisce sarà terreno di nuove discussioni, libere interpretazioni e contrastanti decisioni, perché questa volta i paletti che delimitano il campo, si perdono all’orizzonte, laddove la clausola claims made vacillerà allorquando nella quotidiana interpretazione di merito non riuscirà a superare il giudizio di meritevolezza..

Scomponendo i diversi punti in cui si atteggia il nuovo principio di diritto, così ricomposto dalle Sezioni Unite, è utile rimarcare, prima facie, che la clausola claims made (sia essa pura, mista o impura) non può ritenersi vessatoria, perché, spiega la Corte, non può condividersi quella tesi secondo la quale nella struttura si debba ravvisare una sostanziale assenza di alea.

Sul punto il ragionamento della Suprema Corte non aggiunge argomenti di novità, ribadendo nel concreto quei concetti già più volte espressi e che poggiano sul presupposto che la clausola claims made con effetti retroattivi, non limita la responsabilità dell’assicuratore (ossia le conseguenze della colpa, dell’inadempimento o dell’esclusione del rischio) ma ha lo scopo di stabilire – all’interno dell’oggetto del contratto – gli obblighi concretamente assunti dalle parti.

La vessatorietà, pertanto, viene definitivamente abbandonata, in assenza di un effetto della clausola volto ad escludere una responsabilità insita nell’oggetto stesso del patto, perché sottolinea la Corte la clausola claims made impura mira a circoscrivere la copertura in dipendenza di un fattore temporale aggiuntivo iscrivendosi a pieno titolo nei modi e nei limiti stabiliti dal contratto, entro i quali secondo le previsioni dell’art. 1905 c.c. l’assicuratore è tenuto a risarcire il danno sofferto dall’assicurato.

La Corte – nella Sua massima espressione nomofilattica – scrutinando i motivi del ricorso principale (mirante ad ottenere declaratoria di vessatorietà e/o nullità della clausola claims made) ha, quindi, chiuso un varco, “salvando” tutte quelle polizze prive di doppia sottoscrizione,  ma aperto inesorabilmente un nuovo scenario conflittuale, che vede, anzi vedrà già da domani, le parti scontrarsi sul tema della nullità.

E qui, si potrebbe parafrasare che il vinto diventa vincitore.

Prima di analizzare nello specifico tale aspetto, corre l’obbligo precisare che al battessimo di liceità della clamis made pura (quella ad  effetto retroattivo decennale) sul presupposto che in essa si delimita l’oggetto del contratto piuttosto che la responsabilità rispetto all’archetipo fissato dall’art. 1917 c.c, le SSUU hanno rimandando al mittente ogni valutazione in merito alle cc.dd. claims made impure e miste.

Sul punto, seguendo, dunque, il ragionamento della Corte, la nullità della clausola (mista o impura) non potrà essere invocata ai sensi dell’art. 2965 c.c. ritenuto che tale patto non produce alcuna decadenza convenzionale, percè non viola alcuna norma imperativa.

Del pari, non ha valutato pertinente il richiamo ai principi di buona fede e correttezza per la declaratoria di nullità, sul presupposto che in nessun caso potrebbe riconoscersi forza ablativa ad un vincolo convenzionalmente assunto tra le parti; né ha ritenuto ipotizzabile l’applicazione del meccanismo di cui all’art. 1419 II comma c.c., laddove è suscettibile di determinare una nullità, la sola violazione di precetti inderogabili e giammai la mera inosservanza di norme riguardanti il comportamento dei contraenti.

Se da un lato, quindi, la claims made pura non offre elementi riflessivi sul piano della validità, l’indagine afferente la clausola claims made spuria e/o impura necessità – secondo il Supremo Collegio a Sezioni Unite – di una attenta valutazione e quindi di una indagine che in concreto (nel merito della singola fattispecie) verifichi la obiettiva meritevolezza della tutela offerta, in deroga al regime legale contrattualmente stabilito.

È qui, che la decisione – sempre a modestissimo parere di chi scrive – vacilla perché la meritevolezza – quale causa di efficacia – non viene dalle Sezioni Unite affrontata nello specifico ma rimessa alla valutazione del giudice di merito, ciò comportando l’inevitabile tracollo di quell’obiettivo primario che era invece il dirimere.

In altre parole, la meritevolezza, pur sposandosi con l’esigenza di adeguare ogni fattispecie alla norma, confonde nuovamente l’interprete di merito lasciando libero quest’ultimo alle sue personali convinzioni senza la necessità di doversi adeguare a principi definiti. Con ulteriore precisazione che ogni valutazione dovrà tener conto di tutte le circostanze del caso concreto e soprattutto, laddove sussista un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, della possibile applicazione della disciplina prevista dal D.Lvo 206/2005.

Probabilmente ma questa è storia vecchia, la necessità di un riordino avrebbe dovuto spingere verso una valutazione pratica (dove per praticità si consideri l’ordinaria esigenza di abbattere il contenzioso), piuttosto che l’ennesima salomonica impostazione dottrinaria che nulla attiene e nulla purtroppo conosce delle esigenze quotidiane su cui dibattono assicurato ed assicuratore.

Ancor più conflittuale è poi, quanto previsto sugli effetti di tale valutazione di immeritevolezza, che, aventi carattere reale, non possono che comportare l’applicazione, soggiunge la Corte, dello schema legale del contratto di assicurazione della responsabilità civile e cioè della formula loss occurrance.

Una tale visione, in vero, dimentica che la clausola claims made, lungi dall’escludere la sussistenza del rischio garantito, lo delimita e circoscrive in una prospettiva diversa da quella che discenderebbe dall’applicazione del modello loss, con la conseguenza che la vis riconosciuta al giudice di merito (di integrare e/o modificare lo statuto negoziale), al fine di garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti, nel caso di automatica conversione al modello loss, pur prevenendo un abuso del diritto comporti una trasformazione iniqua del contratto.

Sul punto, ove si riconosca la nullità della clausola claims made, la Corte precisa che sarebbe da escludere la sopravvivenza della pattuizione in applicazione del primo comma dell’articolo 1419 cc.; tuttavia, risulta poco credibile la circostanza che l’assicuratore, espunta la clausola claims made e ricondotta al modello loss occurrence la sua obbligazione di garanzia, avrebbe stipulato il contratto, e ciò per l’evidente ragione che il premio commisurato alla adozione della clausola claims made, risulti evidentemente non più proporzionato in caso di clausola loss occurrence.

Fatto salvo, in conclusione, che l’impura sarebbe da considerarsi impura per natura e che ci si sarebbe aspetto un giudizio più fermo da parte della Suprema Corte in merito alla valutazione della clausole con retroattività (spurie), ciò che viene, purtroppo, a generarsi, con tale decisione, è lo stravolgimento della volontà delle parti, allorquando in presenza di una nullità della clausola, non si mira a riequilibrare il sinallagma funzionale (es: nullità della clausola spuria da ricondursi in quella ad effetti puri) ma a sostituire, con un intervento autoritativo, il negozio giuridico voluto con altro totalmente diverso (loss occurrance) .

In conclusione, le Sezioni Unite abbattono ogni futura aspettativa di quella corrente di pensiero che dibatteva sulla vessatorietà della clausola ma spalancano le porte, con valutazione ancora una volta rimessa al giudice di merito, di una possibile nullità del patto negoziale per manifesta immeritevolezza.