di Beatrice Migliorini
Redditi costanti, prestazioni sostenibili, riqualificazione e riorganizzazione del personale, positiva gestione patrimoniale e forte impulso all’informatizzazione. Queste le chiavi del successo della Cassa di previdenza e assistenza dei dottori commercialisti che a fine aprile ha approvato il bilancio 2015 mettendo nero su bianco un vero e proprio andamento record per l’ente.

Numeri alla mano, infatti, l’avanzo corrente è arrivato a 565 milioni superando il record di 557 milioni del 2014 Il patrimonio invece ha raggiunto quota 6,4 miliardi e le riserve previdenziali sono risultate pari a 25,4 volte le pensioni di periodo. Il tutto affiancato da una crescita del numero degli iscritti, arrivato a 64.921 (+3,6%) a fronte di 6.987 pensionati. I risultati ottenuti non sono casuali. Dietro il bilancio record infatti c’è una gestione dell’ente basata su una linea strategica di lungo periodo, frutto della consapevolezza che i giovani professionisti contribuenti di oggi saranno la colonna portante del sistema pensionistico di domani. A illustrare a Milano Finanza i cardini del successo della Cassa dottori commercialisti è il presidente dell’ente Renzo Guffanti, il cui mandato terminerà con in autunno.
Domanda. Presidente, il 2015 della Cassa dottori commercialisti è stato un anno da incorniciare.

A che cosa è dovuto tale risultato?
Risposta. Fondamentalmente all’aver massimizzato un positivo mix di fattori produttivi. In primis, le entrate continuano a mantenersi ben al di sopra delle uscite. In un periodo difficile per gran parte del mondo lavorativo, infatti, gli iscritti sono riusciti a replicare anche nel 2015, come da sei-sette anni a questa parte, lo stesso trend di reddito. È aumentata progressivamente la fiducia nella gestione dell’ente, testimoniata dall’aumento dell’aliquota contributiva media (11,56% nel 2013, del 12,49% nel 2014 e del 12,61% nel 2015, ndr). Come ente, inoltre, continuiamo ad avere un saldo demografico netto positivo, tanto che in tempi di crisi il numero di iscritti è cresciuto complessivamente del 14%. Le prestazioni dell’ente sono state riportate su livelli sostenibili rispetto a quelli che conoscevamo anni fa. A tutto ciò si è aggiunta un’efficace gestione finanziaria e operativa. Negli anni infatti abbiamo messo in campo molte attività volte a riqualificare le risorse umane della Cassa investendo molto anche nell’informatizzazione. Nel rapporto tra iscritti ed ente ormai da anni c’è un utilizzo generalizzato della Pec e una totale sostituzione della carta con il digitale. Grazie poi alla riorganizzazione interna si sono avuti notevoli risparmi e una sensibile riduzione dei tempi di lavorazione dei procedimenti amministrativi a beneficio di tutti gli associati.

D. Dopo anni alla guida dell’ente tra poco lascerà le redini a una nuova squadra. Secondo lei, quali sono le linee strategiche che dovrebbero essere portate avanti per garantire il mantenimento degli standard che avete garantito in questi anni?

R. Sarà opportuno prestare ulteriore attenzione alla fascia dei più giovani che si affacceranno alla professione. È necessario che abbiano spazi e risorse per crescere. All’interno della fascia dei giovani professionisti dovrà poi essere prestata molta attenzione al mondo femminile, dato che tra i neo-iscritti la componente femminile negli ultimi anni è risultata superiore rispetto a quella maschile. Infine dovrà essere data sempre maggior importanza alle politiche di welfare, con particolare riferimento agli aspetti sanitari e assicurativi. In quest’ottica un contributo importante può arrivare dall’Adepp (l’Associazione degli enti previdenziali privati, ndr), perché il singolo inserito in una comunità può ottenere servizi che da solo non potrebbe avere.

D. Per quanto riguarda il confronto con le istituzioni, pensa che ci possano essere possibilità di dialogo per l’abbassamento della pressione fiscale?

R. Come ente continuiamo a sostenere che la tassazione da applicare alle rendite ottenute per pagare le pensioni dovrebbe essere pari a zero, così come è nel resto d’Europa. Sostenevamo questa tesi quando l’aliquota era al 12,5% e lo ribadiamo con forza ora che la tassazione ha raggiunto il 26%. Al di là di questo, è indubbio che le istituzioni prima o poi dovranno prendere atto del fatto che il tipo di imposizione a cui siamo sottoposti, a fronte del fatto che come ente ci siamo fatti carico di prestazioni che altrimenti sarebbero rimaste a carico dello Stato, non ha ragion d’essere. Come Cassa dottori commercialisti ogni anno versiamo allo Stato 50 milioni. Dal punto di vista fiscale veniamo trattati alla stregua di qualsiasi investitore privato che punta ad arricchirsi, mentre in realtà il vero contributo che le casse danno è quello di prendere un deficit enorme e trasformalo in valore. Quando siamo partiti il deficit di bilancio si aggirava intorno al 15% e ora il valore raggiunto è del +22%. Le Casse, soprattutto da quando inserite nel sistema Adepp, creano un valore aggiunto di circa 5 miliardi di euro l’anno, tutti a beneficio degli iscritti; questo elemento deve essere tenuto in considerazione.

D. In tema di investimenti l’Adepp presieduta da Alberto Oliveti ha reso nota la disponibilità da parte degli enti di investire nel fondo Atlante a patto che le istituzioni ammettano una volta per tutte la natura privatistica degli enti e inizino a trattarli come tali. La ritiene una strada percorribile?

R. In merito al progetto di investire nel fondo Atlante non c’è dubbio sul fatto che la dimensione economica raggiunta dagli enti di previdenza è tale da poter prendere in considerazione questo tipo di ipotesi. Diverso invece l’aspetto legato alla natura privatistica. Noi non dovremmo aver bisogno di alcun tipo di riconoscimento, in quanto il nostro status è privatistico dal 1995; il problema è riuscire a fare pulizia di tutte quelle norme che negli anni hanno soffocato il nostro status.

D. Sempre in tema di investimenti, come valuta la misura del governo volta a concedere un credito d’imposta agli enti che investono in economia reale prevista dalla legge di Stabilità 2015 a fronte dell’aumento impositivo sui rendimenti finanziari, passato dal 20 al 26% per le casse e dall’11,5 al 20% per i fondi pensione?

R. L’operazione è stata l’ennesima dimostrazione del fatto che con questa misura non si voleva porre rimedio all’ingiusto aumento della tassazione a cui siamo stati sottoposti, bensì si voleva indurre le Casse a fare investimenti spropositati nei settori scelti da terze parti. Il meccanismo messo in piedi si è rivelato tale per cui, per fare in modo che il plafond di 80 milioni di euro messo a disposizione venisse esaurito, gli enti avrebbero dovuto fare investimenti per circa un miliardo, tutti nello stesso anno. Una cifra enorme, anche perché dovrebbe essere al netto dei disinvestimenti e degli investimenti spesso frazionati. Ecco perché come Cassa abbiamo scelto di investire comunque secondo le nostre regole, considerando un di più quello che eventualmente avremmo potuto ottenere in termini di agevolazione. Alla fine, conti alla mano, subiremo una trattenuta di circa 6 milioni e godremo di un credito di imposta di circa 1 milione di euro. (riproduzione riservata)
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