La busta arancione, inviata ai giovani, prospetta loro un povero assegno dall’Inps. Mandarla anche a che è già in pensione, con i benefici legati al sistema retributivo, favorirebbe il patto generazionale

 Roberto Sommella

Perché il postino deve bussare solo alla porta dei giovani, talvolta precari se non disoccupati, per consegnare la busta arancione, o quello che sarà, in cui si annuncia loro una futura vita di stenti pensionistici vista la scarsa anzianità lavorativa? Perché invece non potrebbe suonare al campanello di chi, del tutto legittimamente, si è da tempo ritirato dal lavoro con il sistema retributivo e riceve quindi un assegno previdenziale più alto di quello che gli permetterebbero i contributi versati? Gli interrogativi non sono affatto provocatori, se si pensa che è proprio il divario sociale tra chi ha diritti e chi li può leggere solo sulla Carta Costituzionale uno dei principali nodi che si devono sciogliere in Italia.

Il dibattito sul modo di calcolare le pensioni è partito a cavallo di due eventi distanti tra loro: da una parte la sentenza della Consulta che ha dichiarato illegittimo il mancato recupero dell’inflazione negli assegni previdenziali, creando non pochi problemi nel bilancio dello Stato e nelle casse del governo Renzi; dall’altra la campagna portata avanti da giornali quali Libero e Il Giornale, che hanno evidenziato le differenze, talvolta enormi, tra i contributi versati dagli ex parlamentari e i vitalizi ricevuti.

Se la pensione dei politici può accendere dibattiti interminabili vista la scarsissima reputazione del ceto in questione presso l’opinione pubblica, estendendo il ragionamento a tutti gli italiani è lecito chiedersi se si ha consapevolezza che in molti casi si riceve dallo Stato molto più di quello che si è dato. 
Insomma, prima di chiedere che cosa sta facendo il Paese per te, chiediti che cosa hai fatto tu per lui. La massima è stata messa in pratica negli Stati Uniti, dove una ricerca ha accertato che un’alta percentuale di elettori riceve dallo Stato un valore in termini di prestazioni maggiore delle tasse che paga. Il blocco politico di interessi creatosi intorno a questi privilegi inficia il funzionamento della democrazia, secondo un acuto osservatore come Paolo Savona, il quale sostiene che anche l’Italia disporrebbe di questi dati ma essi non vengono resi pubblici in quanto dimostrano che una larga maggioranza degli elettori si trova in un’analoga situazione. In soldoni, le tasse che si pagano sono inferiori al valore dei servizi che riceve. Se fosse vero, questo piccolo grande segreto rappresenta una vera bomba sociale. E non perché, come sostengono alcuni, sarebbe il caso di ricalcolare le pensioni dovute su basi contributive per dare un bel taglio: un provvedimento del genere cadrebbe immediatamente sotto la scure dell’incostituzionalità, anche se sulla carta rappresenterebbe una grande operazione di redistribuzione del reddito in un Paese in cui la spesa pensionistica è tra le più alte d’Europa. Il problema è un altro. Non si può alimentare ancora la contrapposizione tra generazioni, alimentando la fuga di quelle più giovani semplicemente con la consegna di un codice Inps per far loro vedere quanto poco avranno indietro una volta che non lavoreranno più. In molti casi si tratta di figli, nipoti o parenti delle stesse persone che invece stanno incassando più di quanto versato.

In generale, il tema è ancora affrontato sulla base di un astratto problema di giustizia sociale, dove vale un patto sempre più claudicante tra elettori ed eletti, in cui la redistribuzione dei redditi si incrocia con la preservazione della ricchezza in una piccola fascia di popolazione italiana. Il ricalcolo delle pensioni in base ai contributi versati, anche solo come esercizio informativo per i cittadini, è doveroso invece perché tutti gli italiani devono sapere quali eventuali oneri caricano sulla collettività per regolarsi su quale sia la loro posizione nei confronti della società. Solo così chi è in credito con lo Stato avrebbe almeno il dovere morale di moderarsi nell’utilizzo dei servizi che lo Stato gli rende, mentre chi risulta in debito ha tutto il diritto, e fors’anche il dovere civico, di pretendere che quegli stessi servizi siano prodotti in modo efficiente. In fondo anche questo è un vecchio principio anglosassone: nessuna rappresentanza senza tassazione. Ma quest’ultima deve essere equa e tenere conto di chi paga e chi no, nel settore fiscale come in quello previdenziale. E siccome le casse pubbliche sono sempre a caccia di risorse e la voce previdenziale pesa oltre il 16% del prodotto interno lordo, il problema è quello di ricondurre il sistema pensionistico su basi sostenibili, ipotizzando un regime più equilibrato che non pensi solo al tirare a campare ma viri decisamente verso la creazione di un sistema previdenziale integrativo fortemente defiscalizzato. Questa svolta potrebbe liberare risorse e far crescere di più un intero settore dell’economia, oltre ovviamente assicurare un futuro più stabile a milioni di lavoratori. L’alternativa sarà togliere a chi ha per dare a chi non avrà, ma non è un principio che può reggere in democrazia. (riproduzione riservata)