Di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Il prossimo nuovo aumento della tassazione delle rendite finanziarie dal 20 al 26% non tocca per fortuna nemmeno questa volta i fondi pensione, i cui rendimenti restano tassati all’11%. Un regime agevolato che per la verità in Europa è ancora più favorevole visto che nella maggior parte dei Paesi europei i risultati dei fondi pensione sono esenti dalle imposte (si veda box sotto).

In ogni caso i fondi pensione in Italia sono anche rimasti al riparo dall’imposta di bollo alzata quest’anno dallo 0,15% allo 0,2%, oltre a non scontare la Tobin tax, l’imposta sulle transazioni finanziarie introdotta nel 2013.

In Italia la previdenza complementare gode di un regime privilegiato dalla fase di contribuzione a quella finale delle prestazioni. In base alle norme previste dalla riforma in vigore dal 2007 i contributi versati ai fondi pensione e ai piani individuali di previdenza (pip) dal lavoratore e, nel caso di dipendenti, dal datore di lavoro sono deducibili dal reddito dichiarato per un importo non superiore a 5.164,57 euro l’anno. La deduzione è ammessa sia che si tratti di contributi volontari sia di contributi dovuti in base ad accordi collettivi, anche aziendali, ma è escluso il Tfr. Ogni anno l’iscritto può ottenere un risparmio fiscale fino a 2.200 euro. Per esempio un lavoratore che ha un reddito lordo di 35 mila euro, con un contributo al fondo di 2.500 euro, vale a dire a circa 200 euro al mese (considerando i propri versamenti e quelli cui ha diritto nel caso abbia un datore di lavoro) paga alla fine 8.670 euro di tasse, 950 euro in meno rispetto ai 9.620 euro di tasse che dovrebbe versare senza adesione al fondo. Ai fini del calcolo del limite di 5.164,57 euro si tiene conto di tutti i versamenti, anche dei contributi versati per i famigliari a carico. E di questi tempi, tra Tasi e aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie, non è un dettaglio da poco.

Tanto più che anche quando si tratta di andare in pensione i fondi hanno una marcia in più, perché è previsto che la parte dei contributi versati (anche per le persone a carico), per i quali il contribuente non ha potuto fruire della deduzione, non saranno tassati al momento della liquidazione della prestazione. Il contribuente però è tenuto, e ha tutto l’interesse a farlo, a comunicare al fondo l’importo non dedotto nella dichiarazione dei redditi, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui è stato effettuato il versamento. Non solo. I rendimenti maturati sono soggetti a un’aliquota pari all’11% invece di quella del 20% di tutti gli altri rendimenti finanziari, che diventerà da luglio del 26% (titoli di Stato esclusi, che restano al 12,5%). Infine le prestazioni (rendita o capitale) vengono tassate nella misura del 15%, con un’ulteriore riduzione dello 0,3% per ogni anno di partecipazione al fondo successivo al quindicesimo. Pertanto l’aliquota potrà scendere fino al 9% dopo 35 anni di iscrizione. Mentre nel caso del Tfr la tassazione è pari all’aliquota progressiva del lavoratore.

Si tratta di un mix di vantaggi fiscali che danno un ruolo centrale e una marcia in più alla previdenza complementare in un momento in cui i cittadini sono chiamati a costruire un welfare per integrare l’offerta dello Stato che si sta riducendo. «La previdenza complementare rappresenta attualmente l’unico modello di welfare privato compiutamente disciplinato e sufficientemente agevolato dal punto di vista fiscale», afferma l’avvocato Fabio Marchetti, docente alla Luiss di Roma. «In particolare, la previdenza complementare è l’unico comparto nell’ambito del welfare privato che può vantare una disciplina fiscale di favore costituzionalmente corretta e operativamente efficiente». Una normativa che dà una marcia in più ai rendimenti rispetto alla scelta di lasciare il Tfr in azienda. «La convenienza di aderire a un fondo pensione non si può basare solo su un confronto finanziario tra rivalutazione del Tfr lasciato in azienda e rendimenti del fondo», afferma Mefop. Il Tfr lasciato in azienda ha un tasso di rivalutazione garantito per legge dell’1,5% più i tre quarti dell’inflazione Istat. «Una corretta comparazione tra Tfr e previdenza complementare deve tenere conto anche della diversa tassazione dei due tipi di redditi», spiega ancora Mefop. Il Tfr in azienda continua a essere tassato in via separata con l’aliquota del reddito di riferimento e, per le somme maturate dal 2001, con aliquota media degli ultimi cinque anni. Il Tfr destinato a previdenza complementare è invece tassato in via sostitutiva (aliquote dal 15 al 9%). «Solitamente lo spread di aliquote su Tfr e prestazione erogata dal fondo è più che sufficiente a rendere conveniente l’adesione o al limite a compensare risultati di gestione anche non positivi», dice Mefop.

 

Il problema è che, nonostante questo regime di favore nella tassazione dei rendimenti e delle prestazioni, i fondi pensione in Italia ancora non sono decollati veramente perché a oggi gli aderenti sono un quarto (6,2 milioni) della platea di riferimento. Una situazione che si può spiegare in alcuni difetti della previdenza complementare tricolore dove, il fisco, nonostante sia leggero, è una delle variabili da migliorare ancora. «Il regime fiscale di favore è troppo spostato verso la tassazione dei rendimenti e delle prestazioni previdenziali a discapito della fase di accesso», aggiunge Marchetti che indica tra le altre variabili che frenano le adesioni anche «la rigidità della disciplina, soprattutto in uscita e una scarsa consapevolezza della necessità del secondo pilastro previdenziale o, in un’ottica più attuale, di welfare integrato». Quali rimedi? «Bisogna dare nuovi compiti ai fondi pensione anche nel welfare, per esempio, di sostegno al reddito, è necessaria una rivisitazione e unificazione dei plafond di deducibilità fiscale attualmente previsti per la previdenza (5.164,57 euro, ndr) e assistenza sanitaria (3.615,20 euro, ndr), è auspicabile una riforma della disciplina fiscale in materia di welfare anche attraverso il collegamento con quella in materia di previdenza complementare e si potrebbe utilizzare il modello della previdenza complementare anche in materia di welfare e in particolare sul fronte dei fondi sanitari». Proprio nel campo dei fondi sanitari, il mercato necessita di molti passi in avanti sul fronte della trasparenza e delle regole che ancora non sono omogenee a differenza di quanto accade nel mondo della previdenza complementare dove invece vige un sistema di norme e un’autorità di controllo, la Covip, ormai rodati da tempo. «Manca una disciplina sia sostanziale che fiscale chiara e operativamente valida per l’assistenza sanitaria su soggetti, compiti e controlli. Esiste», avverte Marchetti, «una sovrapposizione fra normative fiscali ormai obsolete in materia di welfare aziendale nella superata distinzione fra benefit fiscalmente agevolati e prestazioni socialmente utili offerte paternalisticamente dal datore di lavoro». Una situazione che va sanata al più presto anche perché solo ad alcuni dei bisogni di welfare può essere in grado di rispondere l’attuale assetto della previdenza complementare», conclude Marchetti. Per il resto il cittadino deve organizzarsi come può senza peraltro avere conoscenze ed esperienza per orientarsi in un settore, quello del secondo welfare sempre più complesso. (riproduzione riservata)