Sette giorni che stanno creando confusione nel mercato della distribuzione finanziaria. Si tratta di quello che giuridicamente viene definito ius poenitendi, ovvero il diritto di ripensamento che dura una settimana e si può far valere quando vengono offerti prodotti porta a porta, come un’aspirapolvere o magari un set di pentole.

Una diritto che vale anche quando si acquista un fondo azionario o un conto corrente proposto da un promotore finanziario a casa del cliente. Non per tutti i servizi finanziari però, e proprio questo è il motivo della confusione. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione, lo scorso aprile, ha allargato il raggio d’azione, complicando non poco le cose, perché potrebbe spingere qualche risparmiatore a tentare le vie legali per riavere indietro i denari se l’investimento dovesse rivelarsi sfortunato. Sullo stesso tema erano già intervenute un anno fa le Sezioni Unite della Cassazione, oltre alla Consob (nel 2012) e al legislatore, che con il decreto del Fare di giugno aveva fornito un’interpretazione più stringente. Il risultato finale è una situazione di incertezza «che crea confusione e potrebbe addirittura danneggiare i clienti», sostiene Marco Tofanelli, il segretario nazionale di Assoreti, l’associazione che rappresenta le reti di promotori finanziari.

Domanda. Andiamo con ordine dottor Tofanelli. In fondo è dagli anni 80 che vale il diritto di ripensamento per prodotti finanziari collocati fuori sede. Perché tanto rumore?

Risposta. È vero ma nel ’91 venne chiarito che riguardava esclusivamente i prodotti collocati appunto, nei quali si presume che l’intermediario abbia interesse (economico, ndr) a sollecitare l’acquisto da parte del cliente, oltre alle gestioni di portafoglio. E poi la Consob nel 2012 aveva anche aggiunto che gli ordini successivi, anche gli spostamenti da una famiglia di fondi all’altra, non devono avere di nuovo la clausola. Mentre la raccolta ordini, come per esempio l’acquisto di un titolo azionario o di un Btp, era esclusa perché veniva correttamente presupposto che un contratto di questo genere fosse richiesto dal cliente, senza interesse da parte del promotore finanziario.

D. Le Sezioni Unite l’anno scorso hanno avevano già stretto la presa, con una sentenza che ha allargato l’obbligo di clausola di recesso a tutti i servizi d’investimento, esponendo a rischio nullità tutti i contratti senza postilla, anche quelli precedenti al 2013…

R. Un’interpretazione che presupponeva che il cliente raggiunto a casa da un promotore sia colto di sorpresa. Una concezione del mercato francamente di 20 o 30 anni fa. Oggi la distribuzione fuori sede, a casa o in ufficio dal cliente, non è certo vendita porta a porta ma un servizio di consulenza offerto al risparmiatore, che riconosce il promotore come un professionista e lo incontra negli orari e nei luoghi per lui più comodi. Mentre se si va in filiale per fare un pagamento e si viene sollecitati a sottoscrivere un fondo comune non c’è alcun obbligo di clausola di recesso. Non le sembra un controsenso?

D. Il governo l’anno scorso ha aggiustato il colpo, con una norma interpretativa che ha limitato la clausola al solo collocamento, e dal 2013, alla negoziazione in conto proprio. Ad aprile però è arriva una nuova sorpresa dalla Cassazione, che ha respinto al mittente l’intervento del legislatore…

R. Creando confusione e forse illusioni a qualche cliente che potrebbe essere indotto a provare la strada del ricorso a distanza di qualche anno se dovesse ripensarci. Chi interpreta la legge dovrebbe però ricordare che i costi vanno sempre a scaricarsi sul mercato, intermediari e risparmiatori. (riproduzione riservata)