di Roberta Castellarin e Paola Valentini 

L’Italia vive di welfare: su 801 miliardi di spesa pubblica totale per il 2012, ben 395 miliardi (il 49%) sono stati spesi in prestazioni sociali. Il problema è che questi 400 miliardi di risorse pubbliche oggi destinate a previdenza e assistenza rischiano di contrarsi, se non altro perché per le nuove generazioni che hanno il sistema contributivo di calcolo delle pensioni lo Stato non prevede più integrazioni al minimo e maggiorazioni sociali.

Il sistema attuale penalizza anche le donne. Secondo quanto emerso da un’analisi di Assoprevidenza sulla base dei dati della Ragioneria Generale dello Stato, l’aspettativa di vita delle donne over 65 sono superiori di 3,4 anni a quelle degli uomini. Le donne percepiranno quindi la pensione per un periodo più lungo di circa il 20% rispetto a un uomo. Per effetto del sistema contributivo, a parità di condizioni, il tasso di sostituzione di un lavoratore sarà superiore a quello di una lavoratrice; il differenziale a favore del lavoratore sarà del 5% nel 2060.

 

Sottolinea Alberto Brambilla, coordinatore della Giornata nazionale della Previdenza che si è appena conclusa a Milano in Piazza Affari: «In Italia manca un’efficace comunicazione sui temi della previdenza da parte dello Stato, il nostro obiettivo è fornire tutte le informazioni utili, cominciando dai giovanissimi, La previdenza complementare va intesa come un libretto di risparmio, alla quale pensare il prima possibile». Avverte Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza: «La grave crisi economica e occupazionale ha generato una situazione paradossale dove, al crescente bisogno di copertura sociale, corrisponde la riduzione di risorse a disposizione del welfare pubblico che impedisce al sistema di protezione sociale di assolvere al proprio compito», continua Corbello, «È urgente procedere a una razionalizzazione delle poche risorse disponibili, pubbliche e private, organizzandole in maniera efficiente. Meno enti che svolgono attività parallele significa focalizzare l’attenzione sull’aspetto dei servizi e di risparmiare sulle inutili ridondanze di carattere amministrativo».

Assoprevidenza ha avviato da tempo una riflessione sulla necessità di introdurre opportune modifiche all’attuale modello di welfare, al fine di superare le rigide separazioni operative e normative esistenti tra i comparti della previdenza e dell’assistenza sanitaria complementare, in modo da definire forme pensionistiche complementari che offrano anche prestazioni sanitarie integrative e il presidio dei rischi legati alla longevità e conseguente inabilità, tramite coperture di Ltc (Long Term Care). Appunto un welfare integrato.

Dice Corbello: «Il punto di partenza è la definizione di un modello complessivo di welfare integrato fondato su uno schema generale dotato di adeguata flessibilità, che sia in grado di adattarsi alle diverse situazioni. In questo quadro deve essere approfondito il ruolo che i vari attori coinvolti, sia pubblici che privati, potranno sostenere per la costruzione del nuovo sistema. Nella consapevolezza che, pur in assenza di un quadro normativo favorevole, sono ormai numerose le iniziative avviate nelle Regioni attraverso la realizzazione di efficaci forme di sinergia fra pubblico e privato». In molti Paesi europei sono in corso sperimentazioni esterne al perimetro pubblico, con il coinvolgimento di una vasta gamma di soggetti, quali assicurazioni private e fondi di categoria, fondazioni e altri enti filantropici, il sistema delle imprese e i sindacati, associazioni ed enti locali.

Dai risultati del Primo rapporto sul «Secondo welfare» illustrati nel corso del convegno di Assoprevidenza alla Giornata della Previdenza dalla curatrice della ricerca Franca Mainom, direttrice del Laboratorio sul Secondo welfare in Italia, emerge che in alcuni Paesi europei il welfare alternativo ha già raggiunto importanti risultati, in particolare nei servizi per le famiglie e le persone. È nato un nuovo terziario sociale avanzato volto a soddisfare bisogni e domande non coperte dal pubblico nel campo della salute, dell’assistenza, dell’istruzione, delle attività culturali. I soggetti che operano in questi campi variano dalle micro-imprese giovanili alle emergenti multinazionali dei servizi, pronte a investire capitali.

 

D’altra parte la spesa sociale di parte non pubblica, secondo l’Ocse, in Italia è pari al 2,1% del pil, al di sotto di Svezia (2,8%), Francia e Germania (3,0%), Belgio (4,5%), Regno Unito (7,1%) e Olanda (8,3%). A differenza di altri Paesi, in Italia nell’ultimo decennio la spesa privata è peraltro rimasta ferma. Esistono quindi ampi margini di crescita che potrebbero far affluire verso la sfera del welfare risorse per diversi miliardi di euro.

Oltre l’80% delle imprese con più di 500 dipendenti ha avviato iniziative di welfare aziendale e contrattuale. In Italia ci sono più di 500 fondi integrativi negoziali e volontari e circa 2.000 mutue sanitarie, molte delle quali nate dalla contrattazione collettiva di grandi categorie di lavoratori dipendenti. Vi sono tuttavia ampi margini di crescita: la spesa sanitaria privata a carico delle famiglie, cosiddetta out of pocket, si aggira fra il 25 e il 30% della spesa sanitaria complessiva, mentre oggi meno del 4% è intermediata dalle assicurazioni e il 14% circa dalle organizzazioni mutualistiche non profit.

D’altro canto gli italiani sono sempre più consapevoli che la crisi lascerà un segno indelebile. Anche perché di fatto ha accelerato un cambiamento inevitabile, se si considerano il livello del debito pubblico italiano e il trend demografico. Una consapevolezza che emerge dal rapporto Assimoco 2014 «Un neo welfare per l’Italia». Il 63% degli intervistati ritiene che la copertura dei bisogni derivanti dal welfare pubblico si è ridotta nel tempo e si dovrà pagare sempre di più per ottenere i relativi servizi, oppure si dovrà ricorrere sempre di più a servizi a pagamento. (riproduzione riservata)